EDDA CONTE - MARIO VALENTE Il mestiere del Tiranno o il sogno della Libertà ne Il trionfo di Clelia (Metastasio-Gluck)? Bologna, Teatro Comunale 250° anniversario dell’inaugurazione (14 maggio 1763-14 maggio 2013) Clelia - Maria Grazia Schiavo Orazio - Mary-Ellen Nesi Larissa - Burçu Uyar Tarquinio - Irini Karaianni Porsenna - Vassilis Kavayas Mannio - Daichi Fujiki Direttore - Giuseppe Sigismondi De Risio Regia e scene - Nigel Lowery Costumi - Paris Mexis Luci - George Tellos Orchestra e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna Allestimento originale di Et in Arcadia ego nella nuova edizione celebrativa per il 250° dall'inaugurazione del Teatro Comunale di Bologna Repliche: 16, 17, 19, 21 e 22 maggio 2013 l testo è il testo, e il libretto del Settecento è il libretto per il teatro musicale. Specie se l’autore è Pietro Metastasio, Poeta Cesareo degli imperatori d’Asburgo, da Carlo VI a Maria Teresa a Giuseppe II, dal 1730 al 1782, è d’uopo raccomandare la massima attenzione nel rappresentare il dramma Il trionfo di Clelia, messo in musica da Christoph Willibald Gluck. Al regista Nigel Lowery sembra invece sia pressoché sfuggita la drammatica semplicità di questa tautologia. Reduce dalla Royal Opera House di Londra dove ha curato la regìa dello stesso melodramma, ha riproposto le sue chiavi di lettura in occasione del 250° anniversario dell’inaugurazione del Teatro Pubblico di Bologna – oggi Teatro Comunale – (1763-2013) – che allora come oggi ebbe la messa in scena de Il trionfo di Clelia. Nonostante i numerosi tagli sul testo poetico di Metastasio, alla fin fine Nigel Lowery su di esso ha dovuto e potuto sviluppare la sua interpretazione attualizzante, con il dichiarato non sotteso intento di coinvolgere emozioni e passioni, sensibilità e gusti, molteplici e variegate stratificazioni culturali, oggettivamente visibili e subliminali, evocate ad uso e in funzione del pubblico dei nostri giorni.
È così che il giovane ed affermato regista ha rappresentato/trasformato Clelia, rispetto sia alla prima del melodramma a Vienna con la musica di Hasse nell’ottobre del 1762 che nella famosa messa in scena bolognese del maggio 1763, con la scenografia di Antonio Galli Bibiena, architetto-progettista del Nuovo Teatro Pubblico, e con la musica di Gluck, da quasi indomita riedizione dell’orgogliosa Didone metastasiana, in un personaggio dai marcati tratti e comportamenti stolidamente mascolini e guerreschi, ben lontani, ovvero quasi affatto estranei al personaggio disegnato da Metastasio ed esaltato tanto dalle musiche di Hasse quanto da quelle del recente e trionfante compositore di Orfeo ed Euridice a Vienna. Il re Porsenna, da sapiente arbitro di un potere politico assoluto sovraregionale, viene presentato dal Lowery come un torpido sovrano lontano dalla viva e difficile realtà dei suoi sudditi, perso in non meglio identificati interessi di studioso. La giovane figlia Larissa (promessa per Ragion di Stato al principe-re Tarquinio), pur null’affatto insensibile ai diritti del cuore e della propria ed altrui libertà nel melodramma di Metastasio, è trasformata dal Lowery in un essere indefinito, non più fanciulla-non ancora donna, sempre vorticosamente in scena con una bambolina nelle mani, nelle moderne vesti di un’educanda da collegio di suore. Il principe-re Tarquinio, inquieto spasimante di Clelia, da orditore di intrighi ed inganni in un giullare più simile al jocker di Batman, alla ricerca continua dell’improbabile colpo da novanta per far fuori i nostri eroi. Orazio Coclite, mito leggendario dell’affrancamento di Roma dalla dominazione etrusca, così come scolpito dalle fonti storiche ed anche in parte nel dramma del Poeta Cesareo, è invece raffigurato dal Lowery come un evanescente personaggio, gelido e indecorosamente incerto se riavere tra le braccia Clelia, destinata sposa, salvandola dalle voglie di possesso del turpe Tarquinio, oppure, come Orazio finirà per preferire, perseguire esclusivamente la salvezza di Roma, rendendosi così disponibile ai loschi e truffaldini intrighi dell’etrusco per uno scambio/svendita tra l’amore e la patria. Ed infine Mannio, principe dei Veienti (segretamente innamorato di Larissa), personaggio esemplare nella figuratività metastasiana, quasi simbolo dell’origine delle nuove alleanze di Roma e della convivenza dei popoli sotto l’Impero degli Asburgo, diviene un querulo servizievole lacchè disposto a tutto pur di ottenere dal regista l’ordine di fermarsi sulla scena, dopo aver corso a perdifiato da un capo all’altro, chiudendo, tra gli altri compiti affidatigli, sipari e siparietti. La configurazione attualizzante dei personaggi del melodramma da parte di Nigel Lowery vorrebbe fare risaltare contrapponendoli l’uno all’altro, avvalendosi di un’ampia spazialità scenica totalmente occupata e attraversata dai frenetici movimenti dei protagonisti e da suggestivi quanto arditi cambiamenti di scena quali rinvii al prima e al dopo dei mutamenti storico-epocali evocabili, ora l’insopportabile peso della tirannide, dei suoi auto-da-fé e di tutti gli arbitrii autoritari, ora le ansie di libertà e di affrancamento dei diritti all’amore al bene alla giustizia, proposti dai personaggi positivi, Clelia, per prima, Orazio e, in qualche misura, da Larissa e alla fin fine dallo stesso Mannio, pur anche nella fissità paradossale/caricaturale in cui questi viene costretto dalla scelta registica, nonostante tutto il suo darsi da fare.
In qualche modo risulta difficilmente caratterizzato, proprio quel Tiranno, l’etrusco re Porsenna, che, rappresentato prima come un improbabile distaccato esoterico re sapienziale nella sua biblioteca dai tratti scenografici disegnati su Antonello da Messina, poi, sollecitato dalla figlia Larissa che quasi svuota dei libri la biblioteca paterna, consegnandone a Clelia buona parte per un quanto mai equivoco rogo sul palcoscenico, finisce per dare a ciascuno il suo: agli eroi romani, nobili d’animo e coraggiosi, l’indipendenza, a Tarquinio, principe-re degenere, l’onta della sconfitta con la rinuncia definitiva di ogni pretesa di comando e possesso e su Clelia e su Roma. Sullo sfondo della scena, tra l’intrigo ordito da Tarquinio per ottenere da Orazio lo scambio tra Clelia e la libertà di Roma e il disvelamento della macchinazione da parte di Mannio, vero deus-ex-machina del drammatico intreccio, occhieggia minaccioso il profilo di una struttura industriale, camini fumanti e capannoni, forse di ascendenza soviettista, più probabilmente individuabile nelle periferie con fabbriche di Vespignani. Allusione questa – direi alquanto peregrina per un plot grondante magnanimità settecentesca –, in grado di evocare il destino futuro e postumo di cuori amanti e di nobili intemerati eroi pronti ad immolarsi per il bene comune, la libertà e la dignità dell’uomo; precipitati, invece, a produrre alla catena di montaggio il compenso minimo indispensabile per la mera sopravvivenza quotidiana. Un’eterogenesi dei nobili fini e valori dell’esistere che certamente né Metastasio e neppure Gluck avrebbero mai potuto né pensare né prevedere! Il taglio attualizzante della regìa ha quasi l’effetto sorprendente di smontare l’assetto de Il trionfo di Clelia da opera seria fino a trasformarla quasi in opera buffa, ricorrendo, ad esempio, alla proiezione di una sorta di ombre cinesi – raccolte in una stretta striscia nerastra di silhouettes per descrivere l’azione gloriosa di Orazio nel contrastare sul ponte Sublicio il tentativo di irruzione in Roma degli etruschi, seguita dall’incendio della struttura lignea e del precipitare dei contendenti nel Tevere. A questo espediente registico, pallido e pressoché misero rifacimento della famosa ed acclamatissima macchina teatrale inventata da Antonio Galli Bibiena per il solitario combattimento di Orazio, è seguito l’altrettanto giocoso ed allusivo espediente di far rappresentare la fuga a cavallo di Clelia tra le onde del Tevere attraverso un cavallino giocattolo di legno, agitato da Larissa per mimare l’evento coraggioso di Clelia, l’eroina protagonista assoluta del dramma. Peraltro, le modernissime macchine multimediali, a disposizione oggi dei registi al posto dei pesanti marchingegni meccanici settecenteschi dell’epoca del Bibiena, non hanno permesso al Lowery, ad esempio, né di proiettare in alto sul palcoscenico in modo leggibile i versi di Metastasio messi in bocca a cantanti presi più dalla necessità di rappresentare l’azione drammatica con un correre continuo da un capo all’altro della scena, piuttosto che contribuire con le loro voci alla comprensione dell’evolversi del plot narrativo, e neppure di avvicendare in scena immagini ed iconografie, storiche ed attuali, di Roma e dei luoghi delle memorabili imprese di Clelia e di Orazio Coclite. Che dire poi dei tagli operati sul libretto di Metastasio e sull’intonazione di Gluck, “giustificati” peraltro anche da alcune topiche del grande studioso Alfred Einstein il quale assegnò «un amabile e riccamente accompagnato duetto fra Clelia e Orazio (Atto II, scena 2ª)», quando invece il duetto si trova sì nell’Atto II, ma alla scena 3ª, oppure situò la famosa “cantilena” di Larissa, a tempo di minuetto: «Ah, ritorna, età dell’oro» nell’Atto II, scena 2ª, mentre invece si trova nell’Atto III, scena 3ª?
Valgano per tutti i tagli operati in questa prima assoluta de Il trionfo di Clelia, a seguito del miracoloso ritrovamento nel 2007, a Bologna, di una copia integrale della partitura, l’incomprensibile eliminazione dal Coro finale di Romani del Tutti la partecipazione in voce dei tre protagonisti, Clelia, Orazio e Porsenna. In conclusione, nonostante la musica di Ch. Willibald Gluck sia stata eseguita con fascinosa forza evocativa dall’orchestra diretta dal Maestro Giuseppe Sigismondi de Risio, mentre il 14 maggio del 1763 grande successo arrise al melodramma grazie al coinvolgimento emotivo garantito dall’architettura e soprattutto dai suggestivi, preziosi e funzionali mutamenti di scena costruiti da Antonio Galli Bibiena, anche in questa occasione, a 250 anni dall’inaugurazione del Teatro Pubblico/Comunale di Bologna, Il trionfo di Clelia ha visto il prevalere dell’interpretazione registica del Lowery sulla componente poetico-teatrale di Metastasio e su quella musicale di Gluck. Forse, le fondamentali ragioni di questo scollegamento, o meglio, le motivazioni profonde di questa mancata coerente collaborazione tra interpretazione/esecuzione musicale, aderenza al testo/libretto in relazione alla sua origine storica e ai destinatari dell’opera seria, e le scelte di regia e scenografia, possono essere individuate, in sintesi, in tre livelli critici. Il primo risiede, a nostro avviso, nella difficoltà di cogliere tutte le valenze semantico-comunicative della lingua italiana di Pietro Metastasio che, in particolare in questo melodramma, ha la sua centralità nel valore/virtù della magnanimità, rivolta quale rinvio figurativo ad esaltare, ça va sans dire, l’agire politico di Maria Teresa d’Asburgo, nel periodo storico nel quale l’Impero è alle prese nella Guerra dei Sette anni con l’offensiva anglo-prussiana per il predominio in Europa e nel continente americano. Il secondo livello di criticità è nell’illusione manipolatoria dei sensi e dei significati di un’opera seria del Settecento, come se questa debba necessariamente essere piegata da una intelligibilità fondata su criteri e modelli di comprensione dei nostri giorni, ad esempio, tirannide/libertà, astrattamente ritenuti forti e popolari, mentre si perde inesorabilmente la capacità di immedesimazione drammatico-teatrale-musicale fornita dalla figura di Clelia, della sua ben più attuale autonomia morale e politica. Il terzo livello di criticità, infine, deriva dal rifiuto di considerare e il testo poetico e quello musicale, insieme, come un organismo artistico definito e vivente, alla stregua del linguaggio delle arti visive. In ultimo, ci corre l’obbligo di osservare che il prezioso lavoro svolto da Carlo Vitali nel libretto di sala de Il trionfo di Clelia per questa occasione del 250° anniversario dell’inaugurazione del Teatro Comunale di Bologna, attraverso la citazione con traduzione quasi integrale delle fonti storiche del dramma di Metastasio, avrebbe meritato migliore fortuna presso gli interpreti dello spettacolo messo in scena. Certo, ci sarebbe anche piaciuto – ma forse è eccessivo chiederlo, soprattutto a cose fatte – che nello stesso libretto di sala fosse stato riprodotto il dipinto di Pompeo Batoni, l’unico ritratto dal vero di Pietro Metastasio, a tutt’oggi il più riuscito e artisticamente più significativo, se pensiamo ai veri e propri calchi, da questo derivati, del busto del Ceracchi nella Sala della Protomoteca in Campidoglio a Roma, e alla statua di Metastasio, opera di Emilio Gallori, collocata in Piazza della Chiesa Nuova a Roma. Invece, purtroppo, nel libretto di sala appare un improbabile e molto discusso ritratto di uno sconosciuto cavaliere, opera di un certo Martin Van Mytes (sic!). Roma, 22 maggio 2013 Edda Conte – Mario Valente
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