Bartholomeus Spranger, Venere e Adone Kunsthistorische Museum - Vienna Carracci, Venere e Adone, Museo del Prado - Madrid Rubens, Venere e Adone, Hermitage - San Pietroburgo |
Non finto, è vero, è vivo
quell'Adon che leggiadro in sen si posa
a la Diva amorosa
E se nell'atto suo vago e lascivo
a noi mai non si volge, e non risponde,
o dorme al suon de l'onde,
o de le belle braccia uscir non vole,
o i baci gl'interrompon le parole.
Giovan Battista Marino - da Galleria – 1619
done, il leggiadro
cacciatore giovinetto amato dalla dea della Bellezza Venere che per
lui subisce le furie di Marte è il protagonista di una Favola
boschereccia di Domenico Mazzocchi (1592-1665) creata a Roma nel
1626. Lo sfondo è la città, centro nevralgico della cultura
artistica barocca dove i cardinal nepoti, Scipione Borghese, Pietro
Aldobrandini, Ludovico Ludovisi, Francesco ed Antonio Barberini, solo
per parlare dei primi quaranta anni del '600, ergono meraviglie
architettoniche, palazzi e ville e chiese, proteggono artisti e
letterati, spendono fortune alla maggior gloria loro e della loro
casata, fanno confluire opere d'arte da tutta Italia ed Europa per
costituire le più splendide collezioni d'arte mai conosciute,
scavano nel ricco terreno romano per cavarvi le statue che andranno
ad arricchire le loro già magnifiche raccolte. Una Roma
lussureggiante di bellezza che ormai agli inizi del secolo si traduce
anche in sperimentalismo nel campo musicale, dove nel 1600 Emilio de'
Cavalieri aveva con La rappresentazione di Anima e Corpo non
solo esportato il Recitar cantando della fiorentina Camerata
de' Bardi, ma aveva dato vita alla prima, secondo molti, opera in
Stile rappresentativo, contestando il primato alla Euridice
di Iacopo Peri, e dove autori successivi come Landi, Rossi, Marazzoli
e lo stesso Mazzocchi avrebbero dato vita alle nuove forme dell'opera
in musica, con un prelato, futuro cardinale e papa, dalla profonda
cultura classica, Giulio Rospigliosi a scriverne i testi.
Tutti i
personaggi di questa Storia appartengono alla cerchia degli
Aldobrandini, potente famiglia toscana che aveva dato alla Chiesa un
papa, Clemente VIII, ed un cardinale, Pietro, che anche dopo la morte
dello zio nel 1605 era rimasto fra i protagonisti della vita
culturale e politica della città. A seguirlo nel mecenatismo
artistico il nipote Ippolito ed Olimpia Maidalchini Aldobrandini, le
cui seconde nozze con Camillo Pamphili porterà questi ultimi nel
gotha del potere romano.
Infatti
sia Giovan Battista Marino autore dell'Adone, il poema dai cui
canti XII e XIII è tratta La catena di Adone, sia Ottavio
Tronsarelli, redattore del libretto, sia Domenico Mazzocchi furono
dei protégès degli Aldobrandini, e il marchese Evandro Conti, nel
cui palazzo fu messa in scena l'opera era prossimo alla famiglia.
Giovan Battista Marino era stato al seguito di Pietro Aldobrandini
quando questi era legato a Ravenna, e proprio nel fertile ambiente
dell'Università di Bologna avrebbe maturato la sua più importante
produzione letteraria, esemplata sul modello del concettismo, basato
sull'uso della figura retorica della metafora di cui l'Adone,
il poema mitologico-pastorale pubblicato a Parigi nel 1623, sarebbe
diventato il manifesto poetico, come ancora nel 1670 rimarcava
Emanuele Tesauro nella sua summa sulla teoria estetica seicentesca Il
cannocchiale aristotelico.
Domenico
Mazzocchi, nato a Civita Castellana nel territorio a nord di Roma,
dopo aver compiuto gli studi in seminario e aver preso gli ordini,
aveva conseguito il titolo di dottore in diritto e ordinato prete nel
1619, nel 1621 insieme con il fratello Virgilio era entrato al
servizio del cardinale Ippolito Aldobrandini come segretario. La sua
formazione musicale, che affrontò sembrerebbe da "dilettante",
si svolse probabilmente sia nella sua cittadina natale che a Roma,
dove musicò poesie sacre e profane, come indicano le sue raccolte
più famose : Dialoghi e Sonetti; Madrigali; e Poemata,
quest'ultimo su poesie sacre di Maffeo Barberini, papa Urbano VIII.
In seguito si interessò soprattutto di archeologia e a lui si devono
i primi studi sulla civiltà etrusca che ha in Civita Castellana, uno
dei siti più importanti. La catena di Adone è la sua sola
opera ed è esemplata sullo stile rappresentativo. In effetti
molti elementi della sua scrittura musicale fanno riferimento a
Monteverdi, come l'uso dello stile concitato o l'uso della
voce in eco, ripreso sia dall'Orfeo che dal mottetto Audi Caelum
dei Vespri. La sua innovazione più interessante che avrà
ripercussioni importanti nei successivi autori sarà la mezz'aria,
che lui stesso dirà di aver voluto introdurre per spezzare il tedio
dei lunghi recitativi, e di cui è ricchissima La catena di Adone.
La
catena di Adone, favola boschereccia in cinque atti ed un
prologo, fu rappresentata il 12 febbraio 1626 nel palazzo della
famiglia dei marchesi Conti, nel rione di Sant'Eustachio a Roma e di
questa rappresentazione molto sappiamo. Conosciamo i nomi dei due
cantanti protagonisti, provenienti dalla cappella pontificia: il
giovane castrato Loreto Vittori che incarnò il ruolo della maga
Falsirena, mentre il tenore alto Lorenzo Sances, fratello del
compositore Giovanni Felice Sances, tenne il ruolo di Adone.
Magnifica fu la messa in scena, una vera e propria scena mutevole,
basata su quella versatilis di cui parla Vitruvio, con l'uso
di periaktoi (1)
e fondale dipinti dal celebrato pittore Cavalier d'Arpino e dal meno
noto Francesco de Cuppis. Le scene che cambiavano a vista mostravano
di volta in volta, la grotta di Vulcano, una sinistra foresta, un
giardino idilliaco, a cui seguivano un palazzo d'oro e l'antro di
Plutone. Insomma tutta la meraviglia di cui era possibile fare
sfoggio in una rappresentazione cortigiana e festiva.
La favola
si incentra sulle vicissitudini del povero Adone, che per sfuggire
alle ire di Marte, trova rifugio in un bosco dove una maga,
Falsirena, di lui innamoratasi, tenta di sedurlo, incatenandolo con
una catena, donatale dal geloso Vulcano, per trattenerlo suo
malgrado, nel suo palazzo. Adone però non cede alle sue voglie e la
maga, su suggerimento dell' ancella Idonia si reca da Plutone che le
svela l'amore di Adone per Venere. L'ultimo atto è tutto dedicato al
travestimento della maga nella dea e allo sconcerto di Adone che si
moltiplica quando finalmente Venere stessa appare con Cupido al
seguito, ed Adone si trova di fronte due immagini incarnate del suo
amore. Naturalmente la vera Venere si farà riconoscere e farà
incatenare ad una roccia la maga che così pagherà crudelmente i
suoi errori. L'opera termina con i due amanti che celebrano i loro
amori. Tutta l'opera, basata in modo insistente sulla metafora, con
l'uso di frequenti ossimori, e di un forte trattamento chiaroscurale,
fa prova di una grande efficacità drammatica, cromatismi e
dissonanze sottolineano gli affetti presenti nel testo, e
creano una dimensione estremamente caratterizzata dei personaggi. La
disperazione di Adone, lontano da Venere, quella bruciante di amore
non corrisposto della maga, la disinvolta sicurezza di Venere che
riconquista a se l'amato, il provocante ed impertinente garzone
Cupido che intreccia con la madre sensuali duetti, tutta la gamma di
affetti viene messa in campo. In particolare il personaggio
della maga offre una infinita serie di sentimenti contrastanti,
rendendo il gioco chiaroscurale con un canto fortemente espressivo,
facendo spesso uso anche dello stile concitato. L'inserimento
delle mezz'arie all'interno del Recitar cantando,
quindi negli stessi recitativi, rende estremamente vario il
trattamento musicale, e le melodie inattese e l'asimmetria armonica
che ne deriva rendono unica quest'opera. Che termina, dopo un
delizioso terzetto di Adone, Venere e Cupido, con un doppio coro,
scrittura in genere riservata alla musica sacra, che sancisce ancora
una volta il ruolo fondamentale del coro, che come nella tragedia
antica, commenta i fatti narrati, e se ne fa portatore non coinvolto
emotivamente nella storia.
Di questa
splendida opera abbiamo finalmente un'esecuzione moderna. E' infatti
di recentissima uscita un cd realizzato da un gruppo di giovani
interpreti belgi, che aveva già dato prova di sè in una bellissima
esecuzione dell'Euridice di Caccini nel 2008. Si tratta
dell'Ensemble Scherzi Musicali, diretto dal tiorbista, nonchè
ottimo baritenore, Nicolas Achten. Ottima l'esecuzione, forse solo la
dizione italiana del tenore Reinoud Van Mechelen, per altro
bravissimo nel rendere le angoscie di Adone, è perfettibile, ma è
magnifica l'interpretazione della mezzo soprano Luciana Mancini,
splendida Falsirena, nella sua mutevolezza di toni e contrasti
chiaroscurali: amore, ira, disperazione, rassegnazione. Ma sono bravi
tutti gli interpreti di questa che è veramente una composizione
capitale nella storia dell'opera. La stessa ricchezza strumentale, si
parla di una trentina di musicisti nella cronaca dell'epoca, qui
ridotti a otto, fra cui lo stesso Achten all'arciliuto, arpa tripla,
spinettina e clavicembalo, l'uso di strumenti dalle particolari
sonorità, come la spinettina già indicata e il tiorbino, versioni
all'ottava di clavicembalo e tiorba, l'uso di un secondo clavicembalo
montato con corde di budello, la cura e la ricerca approfondita del
colore strumentale per descrivere il carattere di ogni personaggio,
fanno di questa interpretazione un modello esemplare. La sensualità
e il sottile erotismo, seppur velato sotto la metafora della morale
cristiana che viene messa a codicillo dell'opera, nulla a questa
togliendo di quella particolare atmosfera edonistica che regnava
nella Roma papale del primo Seicento, trova così una assai pregnante
rappresentazione.
Isabella Chiappara, 19 febbraio 2012
Note
I
periaktoi, o periatti in volgare, erano delle alte
armature a forma di prisma di tre o più lati, situate ai due lati
del palcoscenico sulle diagonali assiali, in numero di due o più
per lato, convergenti verso un altro prisma di maggiori dimensioni
che costituiva il fondale. Ogni lato portava un telaio armato con
sopra dipinti prospettivamente gli elementi delle mutazioni delle
scene. Ogni prisma era attraversato da un asse che li faceva ruotare
su se stessi permettendo la mutazione a vista delle scene. Ne
trattava già Vitruvio e vennero ripresi sia da Serlio che da
Egnazio Danti autore di un trattato sulla pratica del disegnare le
Prospettive delle Scene (1611). Il loro utilizzo iniziò nel
1568 a Firenze con le scene per i Fabii e dei suoi Intermezzi
disegnate da Baldassarre Lanci.
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