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Hermafroditi armonici Il mito dell'androgino nell'arte e nella musica barocca Andrea Sacchi - Ritratto di Marcantonio Pasqualini (1641)
In verità, né l'uno né l'altro dei due sessi è il mio; non ho né la sottomissione... né la timidezza, né le piccinerie di una donna; non ho i vizi degli uomini, né la loro... dissolutezza e le tendenze brutali: io sono d'un terzo sesso, a parte, che non ha ancora nome; al di sopra o al di sotto, più difettoso o superiore... La mia chimera sarebbe di possedere, volta per volta, i due sessi, per soddisfare questa mia doppia natura: uomo oggi, donna domani... La mia natura verrebbe così tutta intera alla luce, e sarei perfettamente felice, giacché la vera felicità consiste nel potersi sviluppare senza limiti in tutti i sensi e nell'essere tutto ciò che si può essere. Ma sono cose impossibili e non bisogna pensarci.
Theophile Gautier - Madamigella di Maupin - 1836
fig.1 - Copia da Policleto - Hermafrodito - II sec. dc (vista anteriore) - Museo del Louvre
uello dell'androgino è un mito che risale alla notte dei tempi: in tutte le antiche mitologie all'inizio dell'Universo si poneva un Essere assoluto che possedesse in sé stesso il femminile ed il maschile intesi come il segno di ogni potenzialità possibile. Solo in seguito l'Essere si scindeva, i sessi si separavano e nascevano gli individui ben distinti. Quell'idea di Unità primordiale, immagine della perfezione, appartiene a teorie e credenze che si incontrano ed intrecciano in tutto il Mediterraneo, nel Medio Oriente come nelle culture più arcaiche. In Cina come in Iran, in Polinesia come nelle Americhe, la divinità, soprattutto se di origine agraria, è bisessuale: la pienezza e la totalità originaria creano le mille possibilità dell'esistente e dell'immanente.
L'androginia primigenia viene evocata da feste e rituali di iniziazione in cui il travestimento e la maschera sono elementi fondanti: con questi riti ci si appropria della pienezza delle origini, della sorgente della sacralità e della sua onnipotenza. (fig.2)
fig.2 - Copia da Policleto - Hermafrodito - II sec. dc (vista posteriore) - Museo del Louvre
Il mito di Ermafrodito, figlio di Ermes ed Afrodite è riportato da Ovidio nelle sue Metamorfosi: qui il bellissimo giovinetto viene sorpreso ad una fonte dalla ninfa Salmace che lo desidera e vorrebbe farlo proprio amante. Alle ripulse del giovane che ancora non conosce amore, la ninfa si getta ugualmente fra le sue braccia ed implora gli dei che "i loro corpi non si possano mai separare e allontanarsi l'uno dall'altro". La supplica viene esaudita e i corpi si fondono e "dopo che un abbraccio tenace li ha uniti l'uno all'altra, non sono più due, e però mantengono una duplice forma, quel corpo non si può definire né di uomo né di donna, sembra non avere alcun sesso e averli tutti e due". (fig.3)
Ma il mito dell'androgino deve appartenere solo alla sfera del Sacro: non si può tradurre nella realtà: l'aspirazione all'unità come massimo grado di perfezione doveva solo essere un segno del divino. Nell'antichità se un bambino nasceva con i tratti dei due sessi nel corpo veniva ucciso o esposto, la perfezione mitica diventava mostruosità, la sua presenza considerata un'aberrazione della natura e un segnale della collera degli dei. Così l'androgino pur rappresentando la totalità nel Sacro non si deve incarnare, pena l'ostracismo. Diodoro Siculo esprime chiaramente questo concetto: "Alcuni dicono che è un dio...nasce con un corpo segnato da una duplice natura, maschile e femminile, con il vigore dell'uno e la dolcezza dell'altro. Altri dicono che (gli ermafroditi) sono dei mostri, che appaiono raramente e che annunciano delle sventure o delle fortune".
Nella filosofia greca fu Platone ad incarnare nel suo Simposio (lat. Convivium) l'aspirazione dell'Uomo all'unità primigenia. E così racconta che nei tempi remoti esistevano tre sessi: maschile, femminile e un terzo sesso che aveva i caratteri degli altri due, l'ermafrodito. Ogni corpo dei diversi sessi era composto in realtà da due: doppie braccia e gambe, doppio il viso, doppi gli organi genitali. L'androgino era l'unità di un uomo e una donna, l'uomo di due uomini, la donna di due donne. Ma erano diventati troppo forti ed arroganti e Zeus decise di dividerli: "Fu così che gli uomini furono divisi in due, ma ecco che ciascuna metà desiderava ricongiungersi con l'altra; si abbracciavano, restavano fortemente avvinti... da quei tempi remoti, quindi è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo, risanando così la natura umana... Ognuno di noi è come la metà di un unico contrassegno... e va continuamente in cerca dell'altra metà".Così Platone non solo spiegava la ragione dell'amore e la ricerca dell'altro da sé: ma spiegava anche gli amori omosessuali, perché se i due uomini e le due donne cercavano il loro eguale, l'androgino cercava il diverso da sé, l'uomo cercava la donna, ricostruendo la primitiva perfezione.
Le due polarità sono esistite da sempre: perfezione ed abominio si sono sempre accompagnate, ma la fascinazione non è mai venuta meno, per molti letterati e filosofi l'uomo perfetto dell'avvenire della specie umana doveva tendere alla reintegrazione dei sessi, fino all'androginia.
Se è soprattutto nell'Ottocento, nella visione estetica romantica di un Novalis, di uno Schlegel o più avanti, nell'Estetismo e nel Simbolismo decadente, che il mito dell'androgino si è concretizzato nella ricerca artistica, letteraria come pittorica, in realtà la rappresentazione della Bellezza come categoria ideale e sovratemporale aveva portato fin dall'Antichità all'eliminazione di una rigida differenziazione fra i due sessi, fra il maschile e il femminile. Questo soprattutto nella rappresentazione del Bello Ideale: le figure di Apollo, di Bacco, di Amore; le coppie di divini amanti come Venere e Adone o Amore e Psiche, in cui la tensione amorosa portava alla sintesi e alla fusione dei corpi e dei sessi, nel raggiungere la perfetta Armonia. (fig.4)
Nella ritrovata Classicità rinascimentale il Bello si ricomponeva nell'esprimere una idealità di forme e contenuti, la ricerca di una perfezione estetica si proiettava nell'immaginare corpi simili, toccati dal divino.
L'Apollo del Belvedere, (fig.5) per secoli modello assoluto di Bellezza e perfezione corporea offriva ad artisti e letterati un canone di riferimento in cui il candore della pelle, i lineamenti delicati e le lunghe chiome inanellate da sempre attributo femminile, le forme corporee morbide e sensuali seppur virili, si accompagnavano a quella giovinezza mitica la cui fascinazione, dall'antica Grecia, mai aveva abbandonato l'umanità. A partire dal Quattrocento, da Botticelli e Perugino (fig.6-7) le forme maschili si fanno efebiche, i corpi glabri risaltano nella loro perfezione anatomica senza essere disturbati da eccessi di carnalità, domina l'Amor Socraticus che tanto incarnava una bellezza non contaminata dalle ingiurie del tempo e della sessualità. Quella tensione verso una bellezza pura e perfetta si esaltava nel pieno Rinascimento con la scoperta delle copie romane di sculture ellenistiche: Raffaello, Michelangelo (fig.8-9) guardavano all'antico ritrovando quella pienezza e quelle suggestioni estetiche a cui il Neoplatonismo ficiniano offriva dimensioni filosofiche. Androginia ed efebìa si coniugavano nella bellezza disincarnata, asessuata o meglio esemplata su quella dei giovani eroi omerici, diventavano un modello assoluto di perfezione a cui tutta l'arte cinquecentesca guardava, dai manieristi come Parmigianino (fig.10-11) e Giulio Romano, ai tedeschi e fiamminghi come Cranach, van Heemskerk e Sustris (fig.12-13-14) che trasferivano anche alle forme del corpo femminile quella ideale androginia a cui guarderà con sempre più interesse l'arte barocca. Leonardo da Vinci arrivava a fondere i due sessi in immagini di donne e uomini dall'ambigua sensualità, (fig.15) il cui sorriso fatale affascinò generazioni di artisti e letterati, giungendo a rappresentare un angelo incarnato dalla sconvolgente crudezza sessuale.(fig.16) Agli inizi del Seicento a Roma il classicismo con Annibale Carracci e Guido Reni, (fig.17-18) ma anche il realismo caravaggesco (fig.19) offriva immagini di efebi divini, nei quali lo stigma della bellezza non cancellava una sensualità quasi perversa a cui gli ultimi esiti del Manierismo e Bernini aggiungeranno seduzione e fascino. (fig.20-20b) La splendida copia dell'Ermafrodito di Policleto del II sec. dc, restaurata dallo scultore romano, era al centro delle collezioni del Cardinale Scipione Borghese, con tutta la sua carica trasgressiva, insieme al suo Apollo e Dafne dalla stupefacente perfezione.(fig.21)
Quelli sono gli stessi anni nei quali a Roma si istaurava la prassi di sostituire con le voci di giovani cantori castrati, i cosiddetti spagnoletti per l'iniziale provenienza dalla penisola iberica, i controtenori da sempre presenti nella Cappella Pontificia, per la tessitura acuta, che le donne per antico divieto paolino non potevano cantare nella polifonia sacra. Quelli sono gli stessi anni nei quali, sempre a Roma, quella tessitura acuta, in precedenza mai esaltata, diventava sempre più ricercata e magnificata dalla scrittura musicale profana. I primi drammi musicali sulle scene romane vedevano l'avvento degli "evirati cantori", di quei musici che presto per la loro particolarissima vocalità diventarono delle vere celebrità. Come Marc'Antonio Pasqualini, famoso per aver interpretato l'Orfeo di Luigi Rossi a Parigi alla corte di Anna d'Austria ed organico alla corte dei Barberini. Estremamente esemplare dell'idealità a cui si lega la figura del cantante castrato è il ritratto che Pasqualini si fece realizzare da Andrea Sacchi nel 1641, (fig.22) al pieno fulgore della sua fama.
In esso il cantante abbigliato nella bianca cotta dei cantori della Cappella Sistina, ma le reni avvolte da una pelle di leopardo, attributo di Bacco e simbolo della sua presenza sulle scene operistiche, viene incoronato con il sacro alloro da Apollo, rappresentato nelle forme eterne dell'Apollo Belvedere. Pasqualini suona un claviciterio, raro strumento simile ad un clavicembalo ma con la cassa armonica e le corde poste verticalmente. Il bellissimo strumento è ornato da una Dafne che si sta trasformando in alloro, chiaramente legata all'iconografia del Dio. Alle spalle di Apollo un brutale Marsia è legato ad un tronco d'albero, con ai piedi il suo demonico strumento a fiato, una cornamusa. Risulta molto chiaro che questo dipinto si pone come una vera e propria allegoria musicale legata alla voce e alla dimensione artistica del castrato. Apollo, come Sole e guida delle Muse era stato posto dalla filosofia neoplatonica al centro della teoria sull'Armonia delle Sfere Celesti elaborata da Franchino Gafurio, nella sua Practica musicae. (fig.23)
Il satiro Marsia, mezzo uomo e mezza bestia, rappresentava invece nel neoplatonismo quella parte dell'essere umano che rimane legata alla materia bruta, che non si innalza al divino. Ma ancor di più lo scorticamento di Marsia, che seguirà alla gara fatale, ha fortissime componenti simboliche che a mio avviso si legano indissolubilmente alle vicende umane ed artistiche del castrato Pasqualini. Marsia era un seguace di Bacco, il suo flauto era lo strumento che suscitava le passioni oscure e carnali che sono in conflitto con la purezza della lira di Apollo. La gara riguardava quindi le forze dell'oscurità dionisiaca e della chiarezza apollinea, dell'ordine e del disordine. Lo stesso scorticamento diventava un rito di purificazione, tragico e ordalico, che però lacerava la bruttezza e la materialità dell'uomo esterno per rivelare la bellezza della sua anima interna. Era il modo attraverso il quale il "Marsia terreno" veniva torturato per poter incoronare l'"Apollo celeste". Nelle Metamorfosi di Ovidio Marsia urla la sua disperazione con un grido lacerante: Quid me mihi detrahis? (Perché mi strappi da me stesso?) che esprime un'estasi agonica, ma anche "il supremo senso di sproporzione con cui il dio attacca la crisalide umana, che viene straziata mentre soccombe all'estasi divina". (E. Wind - Misteri pagani del Rinascimento - p.213)
Entra nel petto mio, e spira tue Sì come quando Marsia traesti Della vagina delle membra sue
(Dante Alighieri - Paradiso, I, 19-21)
Così Dante si rivolge ad Apollo alla ricerca dell'ispirazione divina. E così Pasqualini trovava nella suprema catarsi, una rinascita alla perfezione dell'Armonia celeste, che attraverso l'ordalia, giustificava l'orrore della sua tragica mutilazione. Solo attraverso la perdita della sessualità, della carne, si poteva aspirare a conquistare il divino.
La Chiesa stessa ne pareva convinta: nonostante la pratica dell'orchiectomia fosse vietata e condannata, in realtà gli organismi ecclesiastici non solo di fatto la permettevano, ma l'enorme numero di bambini castrati, si parla di circa quattrocento castrazioni all'anno negli Stati della Chiesa, andava ad arricchire di coristi ogni cappella o cattedrale di città grandi e piccole. In fin dei conti la creazione di essere asessuati, di eunuchi, collimava perfettamente con la convinzione che solo nel dominio assoluto della carne, si potesse servire Dio, fosse anche con il solo Canto.
E all'inizio della lunga storia della presenza dei castrati nella musica barocca, in quegli inizi del Seicento così avvinti esteticamente alla fascinazione dell'androgino e dell'efebo, la perfezione pareva raggiunta. Si erano creati artificialmente degli Hermafroditi Armonici.
Si fanno molte ipotesi sulla vocalità dei castrati, di esseri che non erano né uomo, né donna, ma eterni efebi. L'opinione più accreditata è che fosse simile a quella bianca sopranile dei ragazzi impuberi, ma potenziata incredibilmente dal fatto di essere emessa da un corpo maschile adulto. Una voce di soprano nel corpo di un uomo che nei tratti fisici rimaneva un ragazzo. Anche se la castrazione produceva effetti aberranti e in qualche modo mostruosi sugli arti che crescevano in modo anomalo, la presenza di corpi glabri e volti imberbi, la crescita dei seni, si accompagnava a tratti talvolta femminei, anche se spesso l'obesità veniva a distruggere con gli anni, quel fascino ermafrodita.
Non sono rari i vivaci ed entusiastici apprezzamenti di personaggi della mondanità e della cultura, in particolar modo settecentesca quando il fenomeno della presenza dei castrati sulle scene operistiche italiane si era trasformato in un successo internazionale che aveva portato questi cantanti a calcare le scene da Venezia, a Vienna, a Dresda, a Londra, finanche a Parigi, in un crescendo della loro popolarità e del loro incredibile virtuosismo che sempre di più si avvaleva di grandi maestri di canto, come furono il Tosi e il Porpora, e di musiche scritte appositamente per valorizzare e incrementare le loro enormi capacità in termini di estensione, almeno tre ottave, di fiato, di passaggio di registri ed estremo decorativismo nelle variazioni.
La scuola di canto italiana, quella stessa che nell'Ottocento continuerà la tradizione in quello che verrà chiamato Belcanto, si esaltava nei virtuosismi esasperati di questi veri ermafroditi canori, dove la loro particolarissima voce e bravura si coniugava a corpi inquietanti, in grado di scatenare anche passioni sensuali. Già la parola "incanto" dà ad intendere la grande possibilità ammagliatrice della voce, oggi studi di musicologi stanno sempre più avvalorando l'ipotesi che si trattasse di una vera fascinazione erotica, che provenisse sia dalla voce che dal corpo stesso dei castrati, dalla loro fisicità sulla scena. In primo luogo si deve pensare che la gola, da dove viene emesso il canto, come vero fluido corporeo e non immateriale, "energia che proviene dal ribollio del sangue nel quale risiede il movimento vitale del corpo" scrisse nel VI sec. dc. Giovanni d'Apamia, grande asceta siriaco, è uno dei principali organi sessuali secondari, in grado di scatenare il desiderio non meno di quelli primari. La stessa forma delle corde vocali nella laringe assomiglia a quella della vagina femminile e sicuramente la gola aperta e mostrata durante l'emissione del suono ha una valenza perturbante ed erotica che ormai gli studi dei sessuologi hanno ampiamente dimostrato.
Dobbiamo quindi considerare che l'ambiguità sessuale dei castrati era il loro grande punto di forza: il castrato era sia fisicamente che vocalmente unico: non era uomo, non era donna, era un "essere diverso", altro, che incarnava nello stesso tempo quel sogno di eterna giovinezza che c'era nella fascinazione per l'efebìa e quel mito dell'androgino che aveva ammaliato fin dai tempi più antichi l'umanità. Come scrive Roger Freitas egli era an eternal lady's man. (fig.24)
L'enorme paradosso che rendeva ancor più conturbante la figura del castrato sulle scene sacre e profane era anche legato alla diversa natura della sua voce. Da una parte, era considerata come voce celeste, angelica, perché smaterializzata dalla carne, legata addirittura alla musica delle Sfere Celesti, come abbiamo visto ben esemplato nel ritratto allegorico di Pasqualini, e quindi intesa come la più grande emanazione della spiritualità e del Divino, dall'altra la presenza fisica del castrato sulla scena lo rendeva un oggetto sessuale estremamente attrattivo sia per le donne che per gli uomini. C'è una grande letteratura a tal proposito e non voglio troppo dilungarmi, ma basti il giudizio di un libertino conclamato come Casanova che così descrisse un giovane evirato cantore protetto del Cardinale Borghese visto sulla scena romana:
Ma sulla scena, vestito da donna, infiammava tutti (...) Stretto in un busto molto ben fatto aveva una vita da ninfa e poche donne avevano un seno più sodo o più attraente del suo. (...) Era evidente che voleva piacere a quelli che erano attratti da lui in quanto uomo, ma anche da lui in quanto apparentemente donna (...) Roma, la santa, che obbliga tutto il genere umano a diventare pederasta.
E Montesquieu nel 1729 che in visita a Roma ebbe ad osservare:
Alla mia epoca a Roma c'erano due piccoli castrati: Mariotti e Chiostra, vestiti da donna, che erano le più belle creature che abbia mai visto in tutta la mia vita e che avrebbero ispirato il gusto di Gomorra anche a chi non avesse la minima propensione verso questa depravazione. Un giovane inglese, credendo che uno di questi fosse una donna, se ne innamorò follemente, e rimase con questa passione per più di un mese.
Il castrato, monstrum fonte di delizia e corruzione, presenza perturbante ed inquietante, poteva naturalmente generare anche pubblico abominio, che andava dalla ridicolizzazione estrema fino alla demonizzazione. (fig.25)
Il suo essere vittima sacrificale di un rito, quello del teatro musicale, che faceva della sua vita un exemplum di bellezza ma anche di oscenità, il suo offrirsi "in pasto" al pubblico, ai meccanismi perversi di quello che già era un vero star-system, le sue bizze da prima donna e il suo dolore di individuo privato di un bene primario, quello del piacere sessuale, che forse poteva dispensare ad altri ma non offrire a se stesso, lo rendevano una figura dal fascino enigmatico ma incredibilmente attrattivo. Che aumentava con la sua presenza sulla scena, nei suoi travestimenti, da donna "amorosa" ma anche e soprattutto da "eroe virile", nella sua gestualità e portamento che lo rapportavano a quanto di più nobile ci fosse nell'essere umano, nel suo incarnare l'afflato patetico di tanta musica barocca, insieme con la gloria del virtuosismo portato agli estremi limiti di una pirotecnia canora che generava stupore e meraviglia, nel suo essere sia angelo che demone, a produrre una fascinazione magica, un incanto ammaliatore che sulle scene si sarebbe riprodotto solo due secoli più tardi con gli "eroi" negativi del rock e del pop, anch'essi esseri diversi e transgender, anch'essi ambigui e perturbanti, portatori di alienità, idoli di perversione.
Bibliografia
AA.VV. - L'Androgino - Novara 1992
Beghelli Marco - Erotismo canoro - Il Saggiatore Musicale - Anno VII - Firenze 2000
Sonya Breda - The Paradox of the Castrato - 2012
Chiappini Simonetta - Voce, erotismo e identità sessuale dall'opera al pop - Hevelius Webzine - Dissonanze 2012
Dubois Pierre - The sexed or unsexed voice on the lyrical stage in XVIIIc. London - Sillages critiques 16 (2013) Métamorphoses de la voix
Freitas Roger - The Eroticism of Emasculation - Confronting the Baroque Body of the Castrato - The Journal of Musicology (2003)
Scarlini Luca - Lustrini per il regno dei cieli - Ritratti di evirati cantori - Torino 2008
Wind Edgar - Misteri pagani nel Rinascimento - Milano 1971
Castrati Renaissance FRANCO FAGIOLI - Arias for Caffarelli - Recensione di I. Chiappara
Nella pletora di recenti incisioni dedicate a figure eminenti appartenenti al mondo degli evirati cantori, alla loro straordinaria vocalità e alla musica scritta per loro in particolar modo dai compositori della Scuola Napoletana, emerge il CD che il nuovo astro della galassia controtenorile, il mezzo soprano argentino Franco Fagioli, ha inteso incentrare sul grandissimo cantante pugliese Gaetano Majorana, detto Il Caffarelli, dal nome del suo primo maestro di musica Domenico Cafaro. In effetti se diversi CD avevano messo in luce già da qualche anno artisti come Farinelli, Carestini e Senesino, ancora nessuno aveva volto particolare attenzione a colui che fu considerato ai suoi tempi, il grande rivale e di pari grandezza di Farinelli, senz’altro il più celebrato dai contemporanei e il maggior ricordato dai posteri, dei castrati presenti sulle scene operistiche settecentesche.
Caffarelli era nato a Bitonto nell'aprile del 1710, da una famiglia benestante proprietaria di immobili e terreni, ma subito instradato alla professione musicale dal suo maestro Domenico Cafaro, che provvide anche alla evirazione e lo inviò a dodici anni a Napoli, al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, dove entrò nella classe privata di Nicola Porpora.
Già nel 1726 debuttava a Roma al Teatro delle Dame nel ruolo femminile di Alvida nel Valdemaro di Sarro, ma dal 1728 si affermava sulle scene italiane come "primo uomo", attirando l'attenzione di Gian Gastone de Medici, granduca di Toscana che lo volle per il titolo onorifico di musico da camera. Nel 1734 occupava l'ambito posto di sopranista della Cappella Reale dei Borboni a Napoli divenendo un protége del re Carlo I che, fatta salva l'obbligatoria presenza a Corte nel periodo quaresimale lo lasciò libero di allontanarsi frequentemente per partecipare alle tantissime produzioni di opere dei più eminenti compositori sulle scene italiane ed internazionali. Nel 1737-8 fu infatti ingaggiato a Londra dove fu primo uomo nelle opere di Handel, Faramondo e Serse, poi a Madrid e nei principali teatri europei in opere di Sarro, Hasse, Mancini, Leo, Vinci, Manna, Di Majo e Porpora.
Nel 1753 fu anche invitato a Versailles dal re Luigi XV per cantare in diverse residenze reali dove fu apprezzatissimo, anche se costretto a lasciare Parigi precipitosamente dopo un tragico duello con il poeta Ballot de Sauvot, nato per dissidi musicali. In Francia fu coinvolto nella Querelle de Bouffons nell'ambito della quale scrisse un'arguta satira.
Erano gli ultimi anni della sua attività, dopo Lisbona, nel 1756 fu ospite di Farinelli a Madrid e in quell'occasione decise di lasciare le scene, continuando però a cantare fino al 1763 presso la Cappella Reale di Napoli.
La sua considerevole fortuna accumulata negli anni dei trionfi nei teatri fu usata spesso a fini filantropici versando grosse somme in beneficenza, ma anche per costruirsi nel 1754 un palazzo signorile nel cuore barocco di Napoli, a Toledo, e per comprare una tenuta ducale nel leccese con relativo titolo. Sul portale del palazzo, attribuito a Ferdinando Sanfelice, volle un cartiglio con la scritta: Amphyon Thebas, Ego Domum che alludeva alla costruzione delle mura di Tebe che Anfione realizzò con l'aiuto della Musica delle Sfere Celesti.
fig.27 - Portone di Palazzo Majorana, Napoli
Fu uomo famoso per le sue intemperanze e per la grande arroganza ed insolenza di cui dava continuamente prova sulla scena, finendo ben due volte in carcere a Napoli, sempre però protetto dal re che lo avrebbe voluto anche direttore del San Carlo, ruolo che però Caffarelli rifiutò.
Artisticamente fu sicuramente uno dei più grandi cantanti del suo tempo, dotato di una grandissima estensione soprattutto nella tessitura acuta, ma famoso in particolar modo per la sua abilità nel canto spianato, nel cantabile e largo.
Il CD della Naïve a lui dedicato vede rappresentato tutto il ventaglio di possibilità tecniche e musicali che possono meglio evidenziare la sua grandezza ed abilità nel canto con arie di bravura, patetiche e di paragone, tutte composte dai grandi musicisti della Scuola Napoletana. Sono infatti presenti arie di Hasse, tratte dal Siroe, di Pergolesi dall'Adriano in Siria, di Porpora dalla Semiramide Riconosciuta, di Vinci dalla Semiramide Riconosciuta, di Leo dal Demofoonte, di Cafaro dall'Ipermestra, di Sarro dal Valdemaro, di Manna dal Lucio Vero, ossia il Vologeso e dal Lucio Papirio. Alcuni di questi autori sono ben noti e spesso incisi, altri come Cafaro e Manna, sono delle reali scoperte. Tutti questi musicisti mostrano al meglio le caratteristiche dello stile galante napoletano: grandissima cantabilità, melodie trascinanti e lunghissime dalla suadente bellezza, virtuosismo portato agli esiti più estremi con richiesta di grandissima agilità, balzi di registro, estensione vastissima. Splendide le arie con strumento obbligato come l'oboe nell'aria "Lieto così talvolta" di Pergolesi o le trombe con le quali il cantante doveva cimentarsi in una vera gara di bravura, come in "Odo il suono di tromba guerriera" di Manna e "Un cor che ben ama" di Sarro.
Franco Fagioli mostra nell'interpretazione di questa musica di essere nel pieno possesso di una tecnica stupefacente che gli permette di avvicinarsi al mitico canto dei castrati con tutto il fascino della sua voce dal timbro scuro e vellutato, capace di innalzarsi in acuti luminosi e di inabissarsi nei recessi ombrosi delle note basse. Il suo incredibile appoggio e controllo del fiato gli può permettere di tenere le lunghissime linee di canto delle cantilene, di aprire con messe di voce incantatorie, di colorare la voce, di dargli mille sfumature timbriche. La sua incredibile bravura nelle agilità gli offre la possibilità di proiettarsi in pirotecniche e rapidissime colorature, i suoi trilli e roulade sono da manuale della scuola belcantista. I passaggi di registro, vero atout di questo artista, sono tanto sorprendenti quanto affascinanti.
Ed infine l'interpretazione è meravigliosa. Tutte le arie, scelte da Max Emanuel Cencic, sono di una bellezza sconvolgente ed eseguite in modo strepitoso. Da quelle di autori più famosi, ai nostri giorni, come la stupenda "Lieto così talvolta" dall'Adriano in Siria di Pergolesi, in cui Fagioli incanta con il suo dialogo serrato con l'oboe, respirando insieme con lo strumento, diventando oboe la sua stessa voce, in quella linea di canto che sembra infinita. L'aria di Manna "Cara ti lascio" inizia con una messa di voce di una fermezza e finezza ammirevoli per proseguire con una cantilena dalla melodia suadente nella quale la voce si colora dei toni più ammaglianti. Anche l'aria dall'Ipermestra di Cafaro "Rendimi più sereno" è di un lirismo espansivo che permette a Fagioli di dare pienamente conto della sua vena patetica di grande seduzione. Nelle arie di bravura come "In braccio a mille furie" di Vinci la sua agilità nelle colorature si dispiega con brillantezza e un virtuosismo senza fallo.
L'ensemble Il Pomo d'oro diretto da Riccardo Minasi è il secondo grande protagonista di questo CD. La direzione brillante e ricca di contrasti dinamici e cromatici è quello che questa musica richiede. La scrittura musicale degli autori della Scuola Napoletana si esalta in questi tempi veloci, dalle battute rapide, ma anche lenti, suadenti, incantatori. Gli strumentisti sono tutti eccezionali a cominciare dalle trombe, dalla perfetta intonazione, splendido l'oboe solista e ottimo il continuo di Yu Yashima.
Fagioli con questa incisione, che a mio avviso resterà negli annali fra le migliori in assoluto interpretazioni della musica barocca napoletana settecentesca, dimostra quanto oggi ci si possa avvicinare con una tecnica adeguata, che ritorni alla Scuola italiana dei grandi maestri di canto come Porpora e Tosi, e con una voce di mezzo soprano maschile, capace di affrontare quel repertorio arduo con le risorse di un timbro e di una qualità eccezionali, ad incarnare quel mitico canto dei castrati di cui Caffarelli fu uno dei più grandi rappresentanti.
E a mio avviso, di portare sulla scena contemporanea quell'ambiguità di segno che fu l'antica fascinazione per l'androgino, che oggi ritorna con tutta la capacità del mito di suggerire le molteplici suggestioni dell'alienità.
Franco Fagioli Arias for Caffarelli Il Pomo d'Oro Riccardo Minasi Naïve V5333
1. Hasse: Fra l'orror della tempesta - Siroe 2. Hasse: Ebbi da te la vita - Siroe 3. Vinci: In braccio a mille furie - Semiramide Riconosciuta 4. Leo: Misero pargoletto - Demofoonte 5. Sarro: Un cor che ben ama - Valdemaro 6. Pergolesi: Lieto cosi talvolta - Adriano in Siria 7. Leo: Sperai vicino il lido - Demofoonte 8. Cafaro: Rendimi più sereno - Ipermestra 9. Porpora: Passaggier che sulla sponda - Semiramide Riconosciuta 10. Manna: Cara ti lascio, addio - Lucio Paririo, detto Il Vologeso 11. Manna: Odo il suono di tromba guerriera - Lucio Vero