MICHELANGELO FALVETTI (1642-1692) Il diluvio universale Fernando Guimarães, tenore - Noè Mariana Flores, soprano - Rad Matteo Bellotto, basso - Dio Evelyn Ramírez Muñoz, contralto - Giustizia divina Fabián Schofrin, controtenore - Morte Magali Arnault, soprano - Acqua Caroline Weynants*, soprano - Natura umana Thibaut Lenaerts*, tenore - Foco Benoît Giaux*, basso - Terra *membri del Choeur de Chambre de Namur Keyvan Chemirani, percussioni (zarb, oud, darf) Choeur de Chambre de Namur Cappella Mediterranea Leonardo García-Alarcón, direttore Ambronay Éditions AMY026 Un grande affresco sonoro: ecco che cosa è questo Diluvio universale di Michelangelo Falvetti inciso per l'etichetta del Festival di Ambronay da Leonardo García-Alarcón alla guida della Cappella Mediterranea e del Choeur de Chambre de Namur, entrambi forti di una nutrita compagine di strumentisti, solisti, e coristi. Un affresco, o meglio uno di quegli strabilianti stucchi del Serpotta che il rutilante Barocco siciliano ci ha lasciato: a questo fa pensare l'ascolto di questo dialogo a cinque voci che fu suonato a Messina nel 1682, probabilmente nella Cattedrale della quale l'oggi misconosciuto Michelangelo Falvetti, di origini calabresi, era maestro di cappella. L'effettivo strumentale a cinque parti reali, sei in due casi, si avvicina molto a quello che i documenti riportano per la Cattedrale di Messina in quegli stessi anni. Una partitura straordinaria, ritrovata nella Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, mentre il libretto di Vincenzo Giattini, autore palermitano allora molto apprezzato, si trova alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia. E non si sa se apprezzare più il libretto o la musica, tanto essi si fondono in un tutt'uno che ha del sorprendente. Difficilmente ho ascoltato musica e testo così pervasivi, così drammaticamente teatralizzati, così capaci di terribilità e di compassione, di furore e di dolcezza, di rigore e di misericordia. La divisione in 4 parti (o tempi, starei per dire, cinematograficamente parlando): in Cielo, in Terra, il Diluvio e nell'Arca di Noè, dà all'opera, a cui è difficile dare una denominazione secondo la terminologia classica, una scansione ritmica di altissima tensione drammatica. Tutto inizia con una dolcissima sinfonia angelica nella quale irrompe con furia, interrompendola, la Giustizia divina, che chiede alla Pietà di cedere alfine alle sue istanze e di punire l'Umanità che troppo l'ha offesa. All'urlo tragico della bellissima voce contraltile della Giustizia rispondono i quattro elementi e in particolar modo l'Acqua, la brava soprano Magali Arnault, che con una breve aria ricca di melismi promette tempeste. Segue, nella seconda parte, prima un dolcissimo e lirico duetto fra Noè e Rad e poi un dialogo serrato con Dio, che pur nella sua giusta ira dona però la salvezza a Noè, concludendo però nell'esprimere tutta la sua terribilità in una sorta di "aria di furore" ante litteram: Empij mortali. Si apre la terza parte e inizia il Diluvio, con una serie di arpeggi alla tiorba che imitano le prime gocce per poi diventare, in crescendo, una vera e propria Sinfonia di tempeste. Qui l'Umanità nel coro diviso A fuggire, con le diverse voci in imitazione, ci rende partecipi dell'angoscia e della paura che la pervade. Infine arriva la Morte, la quale, con una cavatina che a meraviglia rende l'aspetto glaciale del personaggio (Sono un'ombra fredda e pallida), accompagna con il suo passo felpato e orrifico il meraviglioso e terrificante coro E chi mi dà aita, uno dei momenti più alti dell'opera, con le voci che sembrano inghiottire il fiato insieme con l'acqua e la morte: le parole vita e morte non vengono infatti mai concluse su accordi senza risoluzione e il ritmo percotente delle note porta al parossismo emozionale. A questo punto inizia il drammatico dialogo fra la Morte e la Natura umana, che si produce in un meraviglioso lamento in un coro a cinque, mentre la Morte festeggia la vittoria su un ritmo di tarantella. L'arcobaleno alla fine porterà la pace, celebrata da un duetto delizioso (Ecco l'iride paciera, accompagnato dalla tiorba e dalle percussioni) e da un conclusivo coro a cinque. Mi sono dilungata nella descrizione di questa vera e propria rappresentazione sacra perché essa è imprescindibile per spiegare il puro godimento estetico che dà questa particolarissima opera, che oltrettutto è eseguita benissimo da un García-Alarcón sempre bravo, ma qui come ispirato nel voler comunicare queste incredibili emozioni. Ritmi sostenuti, frasi battenti, tutto al servizio di una retorica musicale esemplarmente restituita. Le voci sono tutte molto buone, in particolar modo il contralto Evelyn Ramírez Muñoz, dalla bella voce scura, superbo il coro. Bellissime le percussioni, che dobbiamo ad un musicista iraniano, Keyvan Chemirani, che suona zarb, oud e darf. Questa, che può sembrare una scelta poco ortodossa, si dimostra invece funzionalissima a restituire quel senso di improvvisazione quasi "sensoriale" che è ancora vivo nella tradizione popolare, in particolar modo siciliana. Splendidi anche i fiati, cornetti e tromboni che con le loro sonorità arricchiscono le sinfonie, soprattutto quella di apertura, in contrappunto imitativo. Insomma questo Seicento meridionale, che non finisce mai di stupirci sin dalle prime scoperte della Cappella dei Turchini, ci dona una nuova gemma e chissà quante ancora ce ne sono nelle miniere inesplorate delle nostre biblioteche. Per chi volesse ascoltare questa composizione, segnalo che su YouTube è disponibile il video del concerto tenuto lo scorso anno ad Ambronay dagli stessi interpreti. Isabella Chiappara, 18 novembre 2011
|