| Napoli - La maschera del demone Giovanni Paisiello - L'Osteria di Marechiaro e il Pulcinella vendicato nel ritorno di Marechiaro (Napoli - Teatro dei Fiorentini 1769-1770) Téniete, ca te lasso, bella Napole mia! Chi sa si v'aggio da vedere cchiù, mattune de zuccaro, e mura de pasta reale, dove le prete so' de manna 'n cuorpo, le trave de cannamele, le porte e le finestre de pizze sfogliate! (.....) Scostannome da te Chiazza Larga, me se spregne lo spireto! Allontanannome da te, Chiazza de l'Urmo, me sento spartire l'arma! (.....) Scrastannome da te, Forcella, me se scrasta lo spireto da la forcella de st'anema! Dove trovaraggio n'autro quartiere Puorto, doce puorto de tutto lo bene de lo munno! (.....) Non pozzo fare spartecasatiello da te, bella Chiaia, senza portare mille chiaie a sto core! Addio pastenache e fogliamolla; addio, zeppole e migliacce; addio vruoccole e tarantiello; addio, sacicce e cientepelle; addio, zoffritto e carnacotta; addio, piccatiglie e 'ngrattinate; addio sciore de le cetate, sfuoggio de la Talia, coccopinto de l'Aurora, specchio de lo munno; addio, Napole no plus, dove ha puosto il termene la Vertute e li confine la Grazia! (GiamBattista Basile - Lo Cunto de li Cunti - Il mercante - giornata prima VII trattenimento) amore che Basile portava per la sua città è, in questa pagina dello Cunto de li Cunti, espresso con tanto trasporto che ci travolge la commozione, e ci dà la misura di come la città, nel Seicento e Settecento una delle maggiori capitali d'Europa, fosse percepita dai suoi abitanti e dai visitatori, che quasi in pellegrinaggio venivano ad ammirare le sue bellezze.
Gaspar Van Vittel - veduta di Napoli dal mare - (coll. priv)
Giacinto Gigante - Marina di Posillipo - Galleria nazionale d'Arte moderna - Roma E il borgo di Marechiaro alla riviera di Posillipo fu uno di quei luoghi deputati di Napoli che per la sua suggestione paesaggistica e pittoresca rappresentava nell'immaginario collettivo dei touristes il mito stesso della città. Soprattutto il vedutismo settecentesco la scelse come scenario privilegiato, con le sue osterie, la scenografica silhouette del Vesuvio in lontananza, le sue amene scenette di pescatori e fruttivendoli, lazzi scurrili e giochi della morra, balli al suono di nacchere e castagnelle insomma la visione idilliaca e folclorica di una realtà popolana sicuramente meno amena di quanto la si volesse far apparire, ma affascinante comunque nella sua complessità segnica.
Anonimo del Settecento - Scena dell'Osteria a Marechiaro Fondo Pagliara - università degli Studi S.Orsola Benincasa - Napoli E' questo scenario che fa da sfondo all'opera buffa L'Osteria di Marechiaro di Giovanni Paisiello su libretto di Francesco Cerlone, fecondissimo scrittore teatrale partenopeo. L'opera era stata messa in scena una prima volta nel 1768 con la musica di Giacomo Insaguine detto Monopoli, ed incontrò immediatamente il successo del pubblico. L'anno successivo fu chiamato ad intonarla una nuova volta, Giovanni Paisiello, in quegli anni in pieno favore della corona borbonica, nonostante un losco affare matrimoniale che lo aveva addirittura portato per un breve periodo in carcere. Paisiello, nato a Roccaforzata vicino Taranto, era giunto a Napoli per studiare al Conservatorio di Sant'Onofrio, che aveva però lasciato nel 1763 un anno prima della fine degli studi, per entrare come direttore artistico della Compagnia di Don Giuseppe Carafa dei Principi di Colobrano, dove esordiva come operista, dedicandosi da subito preferibilmente all'opera buffa. Nel 1767-68 era di nuovo a Napoli dove il suo Idolo cinese venne replicato a Palazzo Reale, che gli commissionava due opere serie e la Festa teatrale per le nozze di Ferdinando di Borbone con Maria Carolina d'Austria. E' quindi nel pieno del suo successo che Paisiello si apprestava a musicare l'opera L'Osteria di Marechiaro, che in un equilibrio perfetto coniuga l'esotismo orientale da Mille e una notte alla napoletanità più manifesta, in cui il famoso borgo diventa scenario per divertenti macchiette e terrificanti scene infernali, giochi amorosi e magiche atmosfere. Ai due atti iniziali dell'opera fu aggiunta la farsetta Pulcinella vendicato nel ritorno di Marechiaro, un tempo creduto la Claudia vendicata, ma che gli studi di Alessandro Lattanzi hanno riportato alla sua giusta collocazione, dove l'elemento magico ed infero diventa il vero protagonista insieme con la maschera di Pulcinella. La trama dell'Osteria di Marechiaro è basata inizialmente sul classico intreccio di molte opere buffe dove un Conte, semplice e grazioso come viene definito nel libretto, di costumi popolani tanto da parlare il dialetto napoletano e corteggiare Chiarella procace contadinella, viene messo sotto assedio da due coppie di personaggi che rivendicano promesse di matrimonio che il Conte avrebbe improvvidamente loro fatto. Sono la vedova napoletana Lesbina, accompagnata dal suo cavalier servente Abate Scarpinelli, che ambisce alle nozze per metter mano alle consistenti ricchezze del Conte e Dorina, fanciulla romana con il padre Marchese Olivieri, in realtà amante di Federico Onesti che si finge cameriere del Conte. Tutto il primo atto passa tra le schermaglie amorose ed intriganti delle varie coppie di amanti, e tra le invettive e minacce rivolte al Conte che, infine, inseguito va a rifugiarsi in una grotta. Da questo momento inizia il secondo atto che è completamente impregnato di magia e di sovrannaturale. Nella terrificante grotta che sembra abitata da spettri il Conte sente una flebile voce che lo implora di liberarla dal vaso nella quale è stata rinchiusa. Questo motivo è chiaramente ripreso dal racconto Il pescatore e il genio delle Mille e una Notte, forse filtrato dal Le Diable Boiteux di Alain-René Lesage o dal più antico racconto spagnolo El diablo cojuelo (1641) di Luis Vélez de Guevara, e serve a scardinare gli eventi che fino a quel momento vedevano vittima il Conte, per trasformarlo in carnefice. Infatti lo spiritello imprigionato una volta libero mantiene la promessa di aiutare il Conte contro i suoi persecutori, donandogli una bacchetta magica che gli permette qualunque cosa egli desideri fare. Il Conte prima trasforma in statue l'Abate, Lesbina, Dorina e il Marchese, per farli marciare come soldati in battaglia, in seguito fa apparire il fantasma del marito defunto di Lesbina ed infine lo spiritello fa volare tutti per aria all'arrivo di un gruppo di guardie. Tutto questo terrifica gli astanti e lo stesso Conte si trasforma in una creatura infera con la sua invocazione a Plutone e Proserpina. Quando tutto è tornato alla calma l'evocazione "Alle Sfere armoniche" si traduce in un largo a più voci di stupefacente cantabilità, debitore di tanta scrittura di musica sacra. Tutta la musica composta da Paisiello per questo secondo atto è fortemente intrisa di componenti compositive usate spesso nelle opere serie per indicare terrore, con figure alla zoppa e corde diminuite, mentre l'uso dei corni e il tremolo dei violini accompagnano la linea vocale, accentuando l'aspetto terrifico. Quest'opera di Paisiello quindi si presenta come una summa della sapienza compositiva della scuola napoletana. Se da una parte le arie destinate a Lesbina e Dorina, in italiano, sono legate alle forme tipiche dell'opera seria, come l'aria di paragone: molto belle la "Pastorella in selva oscura" e "Io sarò qual pastorella" entrambe nel II atto e destinate a Lesbina, nell'intento di parodiare la prima donna dell'opera seria nei suoi toni amorosi e patetici, di converso le arie e i duetti in dialetto di Chiarella e del Conte, accentuano gli elementi tipici della commedeia pe' mmuseca, con la loro valenza sottilmente erotica. D'altra parte sappiamo che ad interpretare il conte fu chiamato il più famoso baritono-basso buffo napoletano dell'epoca, quel Gennaro Luzio che darà vita ai più importanti ruoli nelle opere di Paisiello in giro per l'Europa. Decisamente patetica anche l'aria dello spiritello, per soprano: "Tu che vieni in questo loco", e di tono sentimentale le arie dell'amoroso Federico, nobile travestito da servo, anch'egli soprano. Naturalmente impressionanti per l'eccellenza della scrittura orchestrale il finale del primo atto, un concertato a più voci, il quintetto "Caro abate, dura, dura son rimasta" e il finale con il largo cantabile. Un'opera quindi esemplare nelle dinamiche che conducono a far confluire nell'opera buffa elementi primari dell'opera seria, generando quel "dramma gioioso per musica" che meglio ne determina, anche a livello di linguaggio il carattere teatrale e musicale. Ma oltre a ciò, l'inserimento così marcato di elementi magici e sovrannaturali che secondo le regole illuministiche andavano ad insistere su persone e fatti della vita comune, persone normali la cui vita veniva sconvolta dalla "anormalità" del fantastico, del meraviglioso. Ne risulta un nuovo genere, dove per la prima volta, al buffo e al serio si unisce il magico, foriero esso stesso di comicità naturalmente, perché il terrore degli interpreti sulla scena risultava risibile, non generava paura nello spettatore ma solo riso. *** Se nell'Osteria di Marechiaro il magico è l'elemento cardine sul quale si giocano i destini dei personaggi e lo spiritello fatato nella ottimistica visione illuminista più che demone, si dimostra bonario deus ex machina, che riporta all'ordine e allo status quo, momentaneamente sconvolti, nella farsetta inserita al posto del III atto Il Pulcinella vendicato al ritorno di Marechiaro, l'elemento demoniaco risulta preponderante anche per la presenza della maschera di Pulcinella. Che come tutte le maschere che vengono da un passato arcaico e fortemente intessuto di miti precristiani ha a che fare con la sfera infera e demonica.
Le maschere nella loro genesi in età medievale furono sempre raffigurazioni di diavoli che nelle sacre rappresentazioni interpretavano il Nemico, con costumi a metà fra il bestiale e il diabolico. Ma molto più in profondità nei miti ancestrali della cultura indoeuropea il mistero di personaggi mitici come Herla-king e la sua masnada infernale, della caccia selvaggia e della danza macabra portavano in superficie credenze che si concretizzavano nella visione demonica di esseri che mantenevano tutti i tratti della bestialità mostruosa. Se la maschera dello Zanni, che poi diventerà Arlecchino solo tardivamente nella codificazione e nella dissimulazione onesta dell'angelo nero che è dietro alla maschera della commedia dell'arte, mantiene i due corni primordiali in un accenno di protuberanze sulla fronte, e i suoi lazzi scurrili ed osceni lo imparentano con i diavoli della bolgia dantesca come Alichino, Pulcinella che appartiene ad un substrato arcaico di radice mediterranea, contiene in sè altre valenze inquietanti, che lo apparentano al mondo infero e dei morti. A cominciare dal suo nome, che deriva da pulcino, che lo associa ai gallinacei, nelle culture antiche collegati alle divinità infere, come Proserpina ed Ecate, e al vestito bianco che è colore iniziatico in moltissime culture ed associato alla morte in quanto legato al lenzuolo funebre ma anche alle lenzuola domestiche con le quali veniva costruito nella dimensione popolare l'abito, lenzuola che appartengono ad un letto dove si nasce, si genera e si muore. Non solo essere infero e notturno, fortemente legato alla sfera sessuale con la maschera nera dal grande naso di forma fallica ed ermafrodita come diversi elementi del suo costume e il personaggio della Vecchia o' Carnevale nella sua dualità di genere stanno a testimoniare, ma anche appartenente all'oltretomba, al mondo dei morti, larva di trapassato e demonio nello stesso tempo, come anche la sua voce flebile e chioccia sembra suggerire. D'altra parte alla visione della dimensione diabolica della maschera concorsero le raffigurazioni dei Balli di Sfessania di Jacques Callot (1622), (foto 7-8) che proprio ai saltimbanchi di piazza Castello si ispirò, dove la maschera dimidiata, priva cioè di bocca, viene agita per i lazzi più osceni e dove il mostrum primordiale si trasforma in monstrum curiositas, per essere ricontestualizzata e normalizzata nello spazio scenico della commedia all'improvviso.(foto 9-10)
Maschere da Il carnevale italiano mascherato - incisione su rame di Francesco Bertarelli (1648)
Jacques Callot - I Balli di Sfessania - incisioni all'acquaforte, 1622 Ma nel Pulcinella vendicato al ritorno di Marechiaro di Giovanni Paisiello sempre su libretto di Francesco Cerlone, la maschera partenopea ritrova la sua terribilità. La storia intanto è chiaramente esemplata su uno scenario di commedia degli istrioni, con le trame e gli intrighi amorosi del genere, nei quali brutalmente si inserisce l'elemento soprannaturale che qui ha decisamente una dimensione diabolica. La farsetta inizia con Pulcinella innamorato che canta sotto la finestra alla sua bella pescivendola Carmosina dichiarandole la sua passione nei toni di un amoroso in un duetto dalla melodia struggente. Ma è in agguato il tradimento: infatti un benestante signore romano, Don Camillo accompagnato dal suo servitore Coviello, giunto nella stessa amena località di Marechiaro, nota comprando del pesce, Carmosina, e decide di farla sua sposandola. Naturalmente, attratta dalla repentina ascesa sociale la popolana accetta gettando nella più terribile afflizione il povero Pulcinella, che aggirandosi disperato cercando la morte sulla ripa del mare, incontra una giovane donna, Claudia, anch'essa disperata perché lasciata dal suo amante che altri non è che Don Camillo. Inavvertitamente, traendo sulla spiaggia delle reti di pescatori raccolgono un barilotto dal quale emerge un'apparizione terrifica, un mago-demone coronato di pampini, che giura loro morte.
Giandomenico Tiepolo - Pulcinella - affreschi staccati dalla Villa di Zianigo - Ca' Rezzonico Venezia Pulcinella però con astuzia riesce a farlo rientrare nella botte, avendolo a quel punto in suo potere. Infatti il mago pur di essere di nuovo liberato promette ai due innamorati abbandonati, non solo di non far loro del male ma di essere a loro disposizione per aiutarli, donando loro una bacchetta magica. Pulcinella e Claudia si recano invisibili agli sponsali dei due ex amanti e li fanno volare dentro il Vesuvio. Qui si situa una scena infernale e terrifica perché Carmosina e Don Camillo avvolti dal fuoco del vulcano, che è poi l'Inferno, implorano pietà, ma una volta ottenuta e trasportati al sicuro accusano Pulcinella e Claudia di stregoneria, che a quel punto li trasforma con la verga in statue in un'esilarante parodia di incantesimo: Mio caro Cerbero, / bella Proserpina, / Plutone amabile, / soccorso qui! / piripicchiepacchie / piripicchiepacchie / quant'aggio ditto succeda mo! Nel frattempo Coviello, punito per essere stato il vero autore dell'intrigo, è stato trasformato in un asino, e lamenta la sua sorte in ragli strazianti. Solo dopo questa nuova prova, Don Camillo e Carmosina ritornano agli antichi amanti e un coro festoso celebra il ripristino dell'ordine amoroso che poi è anche ordine sociale.
Michael Wutky - Eruzione del Vesuvio - Offentliche Kunstsammlung - Basel In questa operina dove è forte la contaminazione con la commedia dell'arte, gli effetti teatrali sono di grande impatto scenico, come l'apparizione del mago-demone, il Vesuvio infernale e le diaboliche trasformazioni. Questo elemento teatrale è enfatizzato dai numerosi recitativi, che sono il motore che muove tutta la farsa. Musicalmente è una vera meraviglia nella quale Paisiello trasfonde tutta la bellezza della scrittura melodica della scuola napoletana. A cominciare dal duetto iniziale "Gioia de st'arma mia, cara nannella", un larghetto patetico e sentimentale, e nelle scene seguenti, vivaci per il riferimento alla più nota tipicità partenopea, in cui Carmosina si lancia nelle "grida" per la vendita del pesce "Tengo triglie rossolelle" e Pulcinella in un altalenante andantino "Chi ha visto la moglierella" dove rivendica la sua scelta di "non faticà". Se il largo di Don Camillo "Parto bell'idol mio" è classicamente inteso, l'aria segnata con un allegro di Coviello "La femmena è na piazza" è nel più puro stile buffo mentre deliziose sono le arie destinate a diverse figure femminili solo tangenzialmente implicate nell'intrigo, come la "Nzemprecella, nzemprecella", di Marioletta. Bellissima anche l'aria di Carmosina "Tata mia, caro caro". Il terzetto "Dal cupo baratro", una cavatina in ritmo sdrucciolo accompagnata dal tremolo degli archi, rende la terrificante scena dell'apparizione del demone, nel quale le voci in dialetto e in italiano si alternano come nel successivo esilarante recitativo ricco di ingiurie nel colorito dialetto napoletano "Ah guitta perchieetola" che introduce alla scena infernale del Vesuvio all'interno del quale vengono fatti volare i traditori. Nel quartetto "Uh che bamba, uh quanto fuoco", un sapiente concertato impiegato per esprimere di volta in volta il terrore, l'implorazione, l'invettiva, a cui segue il duetto "Alzati o bestia" in cui agli incitamenti di Don Camillo rispondono i ragli disperati dell'asino in cui è stato trasformato Coviello, la scrittura di Paisiello si fa geniale. Non meno intrigante la scena successiva in un trascinante " Mio caro cerbero" debitore di sfrenati ritmi di danza fra Napoli e la Spagna. Nel conclusivo quartetto "Tortorella abbandonata" si celebra la riconquistata felicità e ricongiungimento degli amanti. Questa di Giovanni Paisiello è veramente un'opera straordinaria per valutare, nell'ambito delle componenti teatrali e musicali, quanto l'elemento magico abbia potuto aggiungere al buffo e alla commedia, e quanto la sua irresistibile vena fantastica si sia adattata a magnificare ed amplificare i tratti grotteschi e comici che librettisti geniali, come Francesco Cerlone prima o Giovanni Battista Casti dopo, e musicisti valenti come lo stesso Paisiello, Salieri ed altri riusciranno a comunicare in tutte le loro potenzialità. Discografia Le considerazioni sulle esecuzioni registrate dell'Osteria di Marechiaro e del Pulcinella vendicato nel ritorno di Marechiaro sono di segno completamente diverso. Della prima abbiamo la registrazione in DVD di uno spettacolo andato in scena nel 2001 a Napoli con la regia di Roberto De Simone e la direzione di Fabio Maestri, alla guida dell'Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli. Se la messa in scena è un gioiello nella resa di atmosfere e scenari tra il pittoresco e l'incantato, veramente magiche le scene del II atto, e divertenti le macchiette come il gioco della morra e le schermaglie tra gli amanti con un'ottima regia di attori che incarnano con grande aderenza i loro personaggi, dal buffo oste Carl'Andrea, al Conte cialtrone e donnaiolo, alla Lesbina dall'affettata leziosità, al timido innamorato Federico, all'azzimmato e vanaglorioso Abate, alla scaltra e verace popolana Chiarella, fino al delizioso spiritello nelle sue varie incarnazioni, altrettanto non si può dire ne della direzione, pesante e senza colori, nè delle voci, soltanto la Norberg-Schulz come Chiarella è veramente splendida nelle sue arie, intensa l'interpretazione della "Chi ha visto la moglierella" ripresa dal Pulcinella vendicato, gli altri non eccellono, anche se c'è da distinguere fra la buona interpretazione di Lesbina e del Conte, la mediocre di Dorina e del padre e la pessima dell'Abate. Lo spiritello e Federico sono interpretati da due controtenori, anche se ho il sospetto che dietro la voce dello spiritello nascosto, ci sia la Norberg-Schulz, e comunque entrambi bravi, tranne quando Angelo Scimmo si lancia nell'interpretazione di "Vo solcando un mar crudele" di Vinci, inserita a mò di aria di baule, ed interpretata pessimamente, senza un filo di voce. Per fortuna tutti si comportano degnamente nei due finali, d'atto e della commedia, ed infine l'impressione che se ne ricava sono le enormi potenzialità dell'opera se fosse messa in mano ad un direttore storicamente informato, ad un orchestra di strumenti antichi e ad un cast di prim'ordine. Tutto questo c'è invece nel Pulcinella vendicato dove Antonio Florio e la sua Cappella dei Turchini fanno faville. A cominciare dallo splendido cast, dove Giuseppe De Vittorio ci regala un'interpretazione di Pulcinella da antologia, degna dei Petito e di altri interpreti famosi, di un'intensità unica, nelle arie melodiche e patetiche, da far venire i brividi, ed ammagliante nella sua guittoneria nelle scenette buffe e nei recitativi, da scuola. Radiosa la Carmosina della Invernizzi, bravissima nella sua sola aria, quasi un cameo, la Schiavo, portentosi Naviglio e Totaro nei ruoli di Coviello e del Mago-demone, e Don Camillo, ottima la Ercolano come Claudia, straordinaria nel suo incantesimo a ritmo di danza indiavolata "parepicchiepacchie". Tutti, a cominciare dall'orchestra dai mille colori, dovuti anche all'uso di strumenti popolari napoletani come il calascione, e dalla strumentazione ricchissima, con oboi e corni, straordinari nel restituirci una assoluta meraviglia del teatro d'opera napoletano. Da non mancare assolutamente l'ascolto che oggi si può avere purtroppo solo per via digitale perché il cd è esaurito da tempo come tutti quelli della gloriosa Opus 111 - I Tesori di Napoli. Giovanni Paisiello L'Osteria di Marechiaro Orchestra del Teatro San Carlo direzione Fabio Maestri Lesbina - loria Scalchi Dorina Marilena Laurenza Federico Onesti - Angelo Scimmo Conte di Zampano - Filippo Morace Chiarella - Elisabeth Norberg-Schulz Peppariello - Biagio Abenante Carl'Andrea - Giulio Liguori Marchese Olivieri - Raffaello Converso Spiritello - Giandomenico Cappuccio DVD Hardy Classic - HCD 4021 Giovanni Paisiello Pulcinella vendicato al ritorno di Marechiaro Cappella de Turchini direzione Antonio Florio Pulcinella - Giuseppe De Vittorio Carmosina - Roberta Invernizzi Claudia - Maria Ercolano Bianchina - Roberta Andalò Marioletta - Maria Grazia Schiavo Don Camillo - Rosario Totaro Coviello e Mago - Giuseppe Naviglio Trafichino - Stefano Di Fraia Opus 111 - Naïve OP 30205 CONTINUA (Salieri) >>> Copyright 2013 Isabella Chiappara Soria | | |