A Non-Profit Project devoted to the Baroque Age Reviews, Articles, Historical Insights, Interviews and the greatest Harpsichord Musical Archive of the World!
Shakespeare e il mondo incantato dei Fairy Tales - A midsummer night's dream Henry Purcell - The Fairy Queen (Dorset Garden, 1692)
In th'olde dayes of Kyng Arthour... Al was this land futfild of fayerye. The elf-queene, with hir joly compaignye Daunced full oft in many a green mede. This is the olde opinion, as I rede; I speke of manye hundred yeres ago. But now kan no man se none elves mo...
(Chauser - The Canterbury Tales - Tale of Wife of Bath)
Henry Fuseli - The shepherd's dream - 1789 - Tate Gallery, London
l popolo britannico è forse quello che in Europa ha intrattenuto con il mondo feerico la più lunga e coinvolgente storia di rapporti che da tempo immemorabile si intessono alle mitiche credenze su antiche genti dalla natura soprannaturale che avrebbero vissuto in quelle stesse terre che poi erano state occupate dai Celti. Questo popolo si sarebbe rifugiato in luoghi inabitati, spesso isole, Hy Breasail per gli irlandesi, l'Isola di Man per i britanni, una penisola nel Pembrokeshire nebbiosa e rocciosa per i gallesi, infine la più nota Avalon del mitico re Artù, nascondendosi agli occhi dei mortali, divenendo nel tempo sempre più "piccolo" (little people è chiamato famigliarmente dagli inglesi) ed invisibile, salvo manifestarsi in determinate occasioni, ben percepibili come i cosiddetti Cerchi delle fate, dove rimaneva il segno delle loro folli danze. In realtà secondo gli antichi racconti questi esseri sarebbero un po’ ovunque, nei prati, sulle colline, nei boschi, nelle paludi, finanche negli angoli più nascosti della casa e del giardino, o a Kensington Garden, come narra il celeberrimo racconto di Peter Pan di J.M. Barrie. Imbattersi con le fate non era sempre un'esperienza piacevole, essendo di natura dispettosa, e spesso malevola, come mostrano le moltissime disavventure occorse agli incauti che si erano esposti alla loro azione, ma poteva anche essere molto fortunata. Uno degli aspetti più noti era la diversità temporale che incorreva fra il regno delle fate e la realtà umana, chi si trovava a vivere pochi giorni con loro tornava che erano passati anni, se non secoli come accadde a Re Herla, condannato a vagare folle senza mai scendere da cavallo per non rischiare la dissoluzione. Così come molto diffusa era la credenza di neonati sostituiti nelle culle, ed allevati dalle fate per rinforzare la stirpe. Era comunque un'esperienza che moltissimi folk-tales e folk-ballads raccontavano descrivendo anche le tantissime specie che componevano il popolo fatato: folletti, elfi, fanciulle fatate, goblin, sidhe, spriggan, leprechaun, brownie, banshee erano alcuni dei tantissimi nomi ed aspetti che gli antichi inglesi, gallesi, irlandesi, scozzesi davano al loro pantheon mitico. Che rappresentava un mondo d'incanti, di mutevole e fascinosa bellezza ma anche di ripugnante bruttezza, di fantasia selvaggia, di metamorfosi maligne o ammalianti, di malizia, paura, amore e tragedia. Sul quale esisteva una ricchissima tradizione di racconti orali che risaliva a remoti tempi pre-cristiani testimoniando la loro origine in culti animisti diffusi in tutta l'area indoeuropea e che trovarono una prima trascrizione colta ed erudita nel corso dell'Ottocento, ed un'analisi molto più attenta alle leggi della moderna demonologia ed antropologia culturale nel Novecento con gli studi, fra gli altri, di Katharine Briggs.
Ma già dal periodo medievale la letteratura sulle Fairies fioriva come dimostra il racconto bretone Huon de Bordeaux, una canzone di gesta molto romanzesca del XV sec, nel cui prologo Roman d'Auberon, appare per la prima volta Oberon, al quale viene attribuita una complessa genealogia che lo fa nascere da Giulio Cesare e dalla fata Morgana, definendolo re del mondo di Féerie, posto in un luogo inaccessibile in comunicazione con un bosco incantato, fra Gerusalemme e il Mar Rosso, luogo di sortilegi che provocano tempeste e allucinazioni, ai confini con il meraviglioso oriente.
Furono soprattutto i sec. XVI e XVII a provare una vera fascinazione per il mondo fatato. A partire dal lungo e complesso poema ermetico-allegorico di Edmund Spenser The Faerie Queene del 1570 e dalle commedie di Shakespeare A midsummer night's dream e The Tempest, proseguendo con l'ignoto autore che nel 1630 scrisse The History of Tom Thumb, His Life and Death, un racconto sulle fate dal duraturo successo. Anche Ben Jonson con il Robin Goodfellow dedicò nel 1620 un poema al più noto folletto della féerique mentre Robin Herrick in una serie di poesie celebrò Oberon e la Queen Mab nell' Oberon Feast del 1648. Milton fece diversi riferimenti alla Queen Mab e ad altre fairies nell'Allegro (1632) e nel Paradise Lost (1667) dove parlò degli angeli caduti come "fallen fairies". Nel 1714 Alexandre Pope descriveva le fate in termini che lo avvicinano all'immaginario poetico romantico:
Some to the Sun their insect-Wings unfold, Waft on the Breeze, or sink in Clouds of Gold... Loose to the wind their airy Garment flew, Thin litt'ring Textures of the filmy Dew; Dipt in the richest Tinctures of the Skies, Where light disports in ever-mingling Dies While ev'ry Beam new transient Colours flings, Colours that change whene'er they wave their Wings.
(A. Pope - The rape of the Lock)
Nel 1765 fu pubblicata la prima grande raccolta di antichi racconti e ballate sulle fairies del Vescovo Thomas Percy (1729-1811) Reliques of Ancient English Poetry, che fu la principale fonte per la gran parte degli scrittori successivi, in particolare Sir Walter Scott, che appassionato collezionista di racconti sul folklore scozzese li diede alla stampe in una serie di raccolte fra il 1801 e il 1810, fra le quali The Lady of the Lake, che gli procurarono enorme fama e generarono il grandissimo successo del genere nel periodo vittoriano.
Ma le fate non diedero solo origine a racconti più o meno affascinanti sul loro rapporto con gli umani o sulle loro storie ancestrali, esse come esseri appartenenti alla sfera del meraviglioso e del magico affascinarono anche coloro che nella filosofia occulta vedevano un mezzo per penetrare i segreti della conoscenza.
Nel XVI sec. Teofrasto Paracelso, medico, astrologo, alchimista e mago aveva redatto una fondamentale codificazione sulla gerarchia degli spiriti elementari nel Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris pubblicato postumo nel 1591. In questo testo si affrontava dal punto di vista "scientifico" il dibattito sulla "natura" di questi esseri per metà umani e per metà sovrumani, che possedevano intelligenza e saggezza ma non l'anima perché non discendenti da Adamo. Ed è palese che nel secolo in cui magia bianca ed ermetismo cabbalistico intessevano le loro trame con la cultura filosofica e con il sapere occulto, con la conoscenza e l'esperienza, sia scientifica che spirituale, la comprensione del mondo feerico non poteva non passare attraverso una sua lettura in termini esoterici.
Questo accadde soprattutto nell'Inghilterra elisabettiana considerata dalla Francis A. Yates non solo popolata "di rudi marinai, di politici accorti e di severi teologi: ma un mondo di spiriti, benigni e maligni, di fate, di demoni, di streghe, di fantasmi e di maghi." (F.A.Yates - Cabbala ed occultismo nell'età elisabettiana - Torino 1982)
E' risaputo quanto il popolo fatato sia tra i grandi protagonisti dell'immaginario shakespeariano. Se nel A midsummer night's dream e nel The Tempest le fairies sono il motore trainante dell'azione narrata, una delle più straordinarie incarnazioni della visione del feerico è nel Romeo and Juliet, nella suggestiva rappresentazione della regina Mab fatta da Mercurzio ad un Romeo visitato da sogni d'amore. A questi che chiede chi sia Mab così l'amico risponde:
MERCUZIO - La mammana del regno delle fate; e si presenta sempre in una forma non più grossa d’una pietruzza d’agata al dito indice di un assessore; viaggia su un equipaggio trainato da una muta di piccoli esserini, e si posa sul naso di chi dorme; i raggi delle ruote di quel traino sono formati da zampe di ragno, il mantice dall’ali di locuste, le briglie da sottili filamenti d’esili ragnatele; i pettorali dai rugiadosi raggi della luna; la frusta ha il manico d’osso di grillo e la sferza d’un filo sottilissimo; il cocchiere, a cassetta, è un moscerino tutto grigio-vestito, non più grande della metà d’uno di quei vermetti che si tolgono fuori con lo spillo dal dito d’una pigra fanciulletta; il cocchio è un guscio cavo di nocciola lavorato così da uno scoiattolo falegname o da qualche vecchio tarlo; son essi i carrozzieri delle fate l’uno e l’altro, da tempo immemorabile. In questo arnese, Mab va cavalcando, la notte, pei cervelli degli amanti, e allora questi sognano d’amore; o per le rotule dei cortigiani che sognan subito salamelecchi; o sulle dita d’uomini di legge che sognan subito laute parcelle; talvolta sulle labbra delle dame, e queste sognano d’esser baciate, e spesso sulle loro labbra Mab irritata dai loro fiati guasti pei troppi dolci, lascia delle pustole. Talvolta anche galoppa su pel naso d’un sollecitatore di favori a pagamento, e quello, allora, in sogno, sente l’odore d’una petizione;
talvolta va a solleticare il naso col crine d’un porcello della decima, ad un prevosto e quello allora sogna un altro benefizio parrocchiale. Talora passa con il suo equipaggio sul collo d’un soldato militare, e allora questi sogna a tutto spiano di tagliar gargarozzi di nemici, brecce, imboscate, lame di Toledo, brindisi con bicchieri senza fondo; poi, d’improvviso, gli rulla all’orecchio il tamburo e lui salta su di botto, si sveglia, e dopo avere smoccolato per la paura un paio di bestemmie, se ne ricade giù, morto di sonno. È quella stessa Mab che nella notte intreccia le criniere dei cavalli e fa dei loro crini sbarruffati, unti e bisunti, dei magici nodi che a districarli portano disgrazia. È lei la maga che quando le vergini giacciono a letto con la pancia all’aria, le preme perché imparino a “portare” e le fa donne di “buon portamento”. È lei che…
ROMEO - Basta, via, Mercuzio, basta! Stai parlando del nulla!
MERCUZIO - Sì, di sogni, che sono i figli d’un cervello pigro, fatti solo di vana fantasia, che sono inconsistenti come l’aria, più incostanti del vento, che ora scherza col grembo gelido del settentrione, ed ora, all’improvviso, in tutta furia, se ne va via sbuffando e volge il volto alle stillanti rugiade del sud.
(William Shakespeare - Romeo e Giulietta Atto I scena IV - Trad. ital. Raponi)
E un sogno è la più affascinante immagine del regno di Féerie, quella incarnata dall'opera più magica di Shakespeare quel A midsummer night's dream che ha incantato ed ancora oggi incanta chiunque le si avvicini, a teatro come alla semplice lettura.
Il Midsummer night's dream fu scritto fra il 1593 e il 1596, e stampata una prima volta nel 1600, in occasione della celebrazione di un importante matrimonio nobiliare, a cui forse fu presente la stessa Elisabetta I, che sicuramente suggerì il tema epitalamico. A colpire è innanzitutto la complessa struttura narrativa della commedia che si articola su più piani paralleli che si intersecano l'uno nell'altro: ben quattro caratterizzati ognuno da un approccio anche linguistico differente.
Il primo è la nobile e classica azione relativa alle nozze dei sovrani ateniesi Teseo ed Ippolita, il linguaggio elegante fa riferimento all'opera di John Lily, un autore molto noto sulle scene londinesi.
Il secondo è la vicenda romantica delle quattro coppie di innamorati: Ermia, Lisandro, Demetrio ed Elena che, con i suoi giochi amorosi, ricade sul genere del romance nello stile di Philip Sidney, scritto in una lingua galante e caratterizzato da intrecci complessi ed intricati.
Il terzo appartiene alla sfera plebea e realistica della recita dei commedianti dilettanti appartenenti al volgo che, con il loro linguaggio basso, rappresentano un approccio alla farsa plautina e ad un mondo linguistico popolare con sgrammaticature e dialettalismi. La recita della tragedia di Piramo e Tisbe tratta dalla letteratura antica offre un'ulteriore elemento di lettura con l'introduzione del tema del teatro nel teatro.
Ed infine l'azione magica relativa alla querelle fra Oberon e Titania, re e regina del mondo di Féerie, con l'inserimento di temi e personaggi come il folletto Puck derivanti dal folklore celtico, e l'occasionale coinvolgimento umano con l'artigiano Bottom trasformato da Oberon in asino e del quale Titania, accecata dalla magia della pozione di viola del pensiero, si innamora. Ma anche con le vicende dei giovani amanti travolte dagli interventi del dispettoso folletto. Qui il riferimento va al genere del masque tanto in voga alla corte elisabettiana.
Si viene così a creare uno straordinario meccanismo dal virtuosismo letterario trascendente, nel quale intrecciando le trame e facendo tra loro interagire personaggi e luoghi che appartengono a diversi piani drammaturgici si viene a creare un mondo a più dimensioni, nel quale è l'amore, che prende le sembianze di Puck, il motore della complessa e proteiforme vicenda. Un amore che è un demone cosmico e cieco, una forza travolgente e panica, un'entità distruttrice ma feconda, irrazionale ma saggia, colpevole ed innocente. In questo continuo intrecciarsi dei contrari sono soprattutto le due facce dell'amore a contrapporsi: quella solare rappresentata dai principi ateniesi e dal loro mondo di classica, serena bellezza e razionalità e quella notturna, lunare del luogo feerico, con la sua irrazionale e sfrenata libertà dei sensi. Così anche follia e saggezza, realtà e fantasia si possono unire nella sovrumana dimensione onirica del sogno.
In altra sede mi sono a lungo soffermata sulla filosofia occulta di matrice neoplatonica-cabbalistica e magica dalla quale trae origine il culto di Elisabetta I, come Astrea ma anche e soprattutto Cinzia, quindi dea lunare, che si oppone al Sole imperiale. Anche nel A midsummer night's dream la componente lunare è preponderante e sovrasta tutta la magica notte, Oberon stesso dice di aver visto il cielo attraversato da una vergine lunare che si sottrae agli assalti di Cupido, in un'apparizione fatata che altri non è che un ritratto della regina.
Come afferma la Yates si tratta di "un dramma magico sugli amanti incantati ambientato in un mondo notturno e rischiarato dalla luna, dove le fate sono al servizio di un re e di una regina fatati."
Risulta chiaro dunque che le fate shakesperiane non sono solo delle proiezioni del mondo fatato di Féerie ma anche, come nel coevo The Faerie Queene di Spenser, una manifestazione di quella filosofia occulta e magica, di quelle radici letterarie e arturiane da cui trae origine anche la loro pervicace presenza nei tornei in onore della regina, di quella esaltazione della figura di Elisabetta I e della sua purezza, del culto religioso di una riforma imperiale sotto l'egida della Regina Vergine.
In un articolo di Neville Davis apparso nel giugno 2002 sul Renaissance Journal si è fondatamente affermato che ad influenzare il librettista anonimo del The Fairy Queen di Henry Purcell nella scrittura dei divertissements dei masques,fu un evento legato ad una festa in onore della regina durante una sua visita a Elvetham nel 1591, la cui descrizione particolareggiata apparve in un testo stampato intitolato The Honourable Entertainment gieven to the Quene's Majestie, in Progress, at Elvetham in Hampshire, by the Right Hon'ble the Earle of Herford, evento che per la prossimità con la data del Midsummer night's dream fu anche messo in relazione con la commedia di Shakespeare.
In questo testo, ritornano molteplici elementi che ritroviamo nell'opera di Purcell come l'episodio del poeta ubriaco, le cineserie, un song in eccho, un coro delle quattro stagioni, un lamento, fate che cantano danzando in compagnia della loro regina che si chiama Aureola e del loro re Auberon.
Finanche il dialogo di Coridon e Phillida riproposto da Purcell come Coridon e Mopsa, ha un'antecedente non solo nell'evento a Helvetham, ma anche in un'opera di Nicholas Breton che ebbe anche un' intonazione musicale in un song a tre voci di John Baldwin. Infine l'episodio del poeta bendato tormentato dalle fate del I atto è ripresa da The Goblins, un play coevo di Suckling.
Insomma dietro alla ripresa purcelliana c'è tutto il mondo fatato del periodo tardo-elisabettiano, non semplicemente quella della commedia di Shakespeare che pur è alla base della parte recitata della sua dramatick opera per dirla con Dryden o semi-opera come più comunemente nel Settecento furono chiamate le particolarissime forme spettacolari apparse negli ultimi decenni del Seicento in Inghilterra.
In effetti già negli anni del fecondo mecenatismo di Carlo II Stuart si era guardato con favore ad una ripresa del culto elisabettiano, soprattutto nella prospettiva di una celebrazione del re nell'ottica di quanto avveniva in Francia con Luigi XIV. L'ascendenza dei sovrani inglesi, secondo il mito di legittimazione dinastica messo in atto da Spenser nel suo The Faerie Queene, da Enea, attraverso Bruto, Artù e la guerriera Britomarte, era ancora in grado di suggerire possibili suggestive interpretazioni artistiche che andavano ad esaltare la restaurata monarchia dopo la lunga parentesi repubblicana. Tali erano stati i tentativi di Dryden con l'opera Albion and Albanius, su musica di impostazione lullista del compositore francese formato in Catalogna Louis Grabu, del 1685, seguito negli anni successivi, già dopo la morte di Carlo II, dal The Profetess, or the History of Dioclesian di Purcell, che a quella si rifaceva nell'intento patriottico, e con molta più pregnanza dal King Arthur di Purcell e Dryden, di esemplare spirito nazionalistico con quel Fairest Isle, un meraviglioso inno di celebrazione dell'isola britannica come la più bella terra esistente. La stessa Dido and Aeneas, l'opera più famosa di Purcell nacque probabilmente con lo stesso intento allegorico-celebrativo delle origini troiane della dinastia inglese.
E' però con The Fairy Queen che si portava agli esiti più sfarzosi e spettacolari quel processo nazionalistico che si orientava anche nella creazione di un'opera nazionale inglese che andava a contrapporsi sia a quella francese che a quella italiana. E in questo veniva in aiuto il grande genio di Shakespeare, fino a quel momento obliato dai teatri inglesi, con la riproposta della sua creazione più evocativa di un glorioso passato.
Nel Seicento in Inghilterra il teatro si era distinto in due generi ben separati: il play completamente recitato, che aveva la sua origine nel Cinquecento e che aveva avuto il suo momento più glorioso proprio con Shakespeare e Marlowe, e il masque, azione spettacolare di parti recitate e trattenimenti musicali, danzati o cantati, con grande dispiego di mezzi scenografici, amatissimo dall'aristocrazia e dalla corte, che nei primi decenni del secolo aveva trovato in Ben Jonson e Inigo Jones dei grandissimi interpreti per la gloria dei sovrani Stuart, Carlo I ed Enrichetta di Francia.
Dopo la rivoluzione di Cromwell e il dominio repubblicano che aveva chiuso tutti i teatri, il ritorno della monarchia aveva di nuovo portato sulla scena londinese, in nuovi spazi teatrali, molto più lussuosi ed ampi di quanto lo fosse l'antico Globe, e grazie alle concessioni reali, due compagnie: The King's Men e The Duke's Men, che negli anni diedero vita a due istituzioni teatrali il Drury Lane e il Dorset Garden.
Quest'ultimo sulla riva del Tamigi, più a sud di Salisbury Court si presentava con una costruzione di magnificenza mai vista fin a quel momento a Londra. Costato la cifra considerevole di 9.000 sterline, dovrebbe essere stato progettato da Christopher Wren o forse Robert Hook, ostentava sul frontone d'ingresso lo stemma del Duca di York, suo protettore, e fu voluto da William Davenant che morto nel 1668 non lo vide però compiuto. Ribattezzato nel 1689 Queen's Theatre in onore della nuova regina, e dopo le difficoltà finanziarie e di gestione che avevano portato a riunificare le due compagnie rivali nell'United Company of Royal Theater, vide il 2 Maggio 1692 la prima del The Fairy Queen di Purcell.
Questa, definita nel libretto An Opera, era nel nuovo genere che si era andato imponendo in Inghilterra a partire dagli anni '70, che vedeva riunite in un unica forma spettacolare che potremmo quasi definire multimediale, parti recitate e divertissements cantati e danzati che ricordavano gli antichi masques. Si trattava di uno spettacolo sontuoso, ricco di scenografie, alle quali sempre più si dedicavano gli architetti inglesi, illusionistico con straordinari cambiamenti a vista, luci, macchine, effetti grandiosi e meravigliosi che si univano alle musiche e ai testi recitati. Un genere che fu chiamato nel Settecento da Roger North (1728) semi-opera, ma che all'opera così come si conosceva sul continente, pur nelle varianti francese ed italiana non assomigliava affatto.
Dalla prima forma ibrida di play con musica come dovette essere il The Siege of Rhodes di Davenant andato in scena nel 1656, diversi altri autori si erano cimentati nel genere che ormai stava stregando il pubblico inglese, tra questi Matthew Locke che nel 1674 scrisse la musica per una rivisitazione della The Tempest di Shakespeare e Giovanni Battista Draghi che aveva rielaborato la comédie-ballet Psyché di Moliere-Lully, in tutte e due i casi fecero scalpore le scene, come successe anche per The Fairy Queen di Purcell lo spettacolo forse più sontuoso mai apparso nel teatro londinese, tanto da essere nel 1693 ampliato e ripreso davanti alla regina Mary.
Così lo ricorda Edward Dowes:
The Fairy Queen fu superiore....nei decori; specialmente nei costumi, per il numero di cantanti, danzatori, scene, macchine e decorazioni, tutto proposto in grande profusione, ed eccellentemente eseguito, soprattutto nella parte strumentale e vocale composta dal detto signor Purcell, e in quella delle danze del signor Priest. La Corte e la città ne furono magnificamente soddisfatti; tuttavia, essendo state così alte le spese per l'allestimento, purtroppo la Compagnia ne ebbe ben moderato guadagno.
L'allestimento infatti si configurava con un gigantismo che sul continente si potrebbe avvicinare soltanto alle "imprese" viennesi, come la messa in scena del Pomo d'Oro di Cesti per Leopoldo I d'Asburgo con le sue sei ore e oltre di musica, le sue incredibili scene e macchinari.
E' stato valutato che The Fairy Queen non poteva durare meno di quattro ore, avvicinandosi verosimilmente alle sette ore. Richiedeva un cast enorme: almeno venti attori ed altrettanti cantanti, circa ventiquattro ballerini e venticinque strumentisti. Le scene erano ricchissime di effetti speciali, in quegli anni ripresi e perfezionati da John Webb, dopo che Inigo Jones suo maestro, ai tempi dei masques carolini aveva importato le novità di scenotecnica apprese nella Firenze medicea.
Si trattava di importanti innovazioni relative alla mutazione a vista delle scene, con le prospettive e le macchine che suscitavano quella Meraviglia a cui il pubblico inglese non era abituato. In più si andavano a creare nuovi effetti di illuminotecnica necessari su più fronti in operazioni di questo tipo. Intanto le luci della ribalta, per le quali le candele si dimostravano obsolete con la loro durata limitata, e l'invenzione di floats ovvero sistemi di luci basate sull'uso dell'olio, praticamente quasi inestinguibile. Ma a dare momenti di straordinaria suggestione erano le luci sulla scena, in grado di creare effetti di trasparenza, come descritto ad esempio nel V atto dove un "Trasparent Prospect of chinese garden" veniva rivelato dall'improvviso illuminarsi della scena dopo l'oscuramento seguito alla fine del Plaint. Per queste trasparenze si pensa all'uso di superfici riflettenti, più difficile immaginare cosa fossero le misty light, mentre per le coloured light si può pensare all'uso di bocce di vetro riempite di liquido colorato poste davanti alle luci, come era già in uso a Firenze per gli Intermedi del Buontalenti. Le glorious light erano invece probabilmente delle luci che attraverso dei filtri di seta tesa su telai di legno, facevano apparire delle auree intorno a determinati personaggi o creavano effetti di dissolvenza durante particolari momenti spettacolari come in TheFairy Queen il sorgere del sole nel IV atto o l'entrata di Juno nel V. Insomma tutti quegli elementi che messi insieme dovevano accrescere nel riguardante quella sensazione di trovarsi in un mondo fatato e di sentirsi immerso in un continuo sensoriale e visuale di trascendente bellezza e trasformazione magica Che naturalmente si accentuava nei cambiamenti a vista improvvisi della scena, quelle che furono chiamate "scoperte" con i loro Ornaments of machines. Ad esempio nel II atto la scena inizialmente rappresentante un bosco illuminato dal chiaro di luna, cambia con l'entrata di Titania, mostrando "A prospect of Grotto's, arbors and delightful Walks: the arbors are adorn'd with all variety of flowers"; nel III atto Titania chiede alle fate un masque per intrattenere Bottom e quindi la scena diventa "a great wood, a long row of large trees on each ride: a River in the middle with two great Dragons....their bodies form two arches, throught which two swans are seen in the river at a great distance" e più oltre "While a Symphony playing the two swans come swimming on trought the arches to the bank of the river, as if they would land; there turn themselves into Fairies, and Dance; at the same time the bridge vanisches, and the trees that were Arch'd, raise themselves upright".
In questo modo le macchine, le scene, le luci e i costumi andavano ad esaltare e a rendere ancor più spettacolare il meraviglioso e il magico presenti nella scrittura musicale e narrativa con lo svelamento dell'incantato mondo di Féerie.
Purcell nella sua sterminata produzione musicale, sia sacra che profana, non era nuovo al genere della semi-opera: la scrittura per il teatro si era andata configurando con numerosi interventi di incidental music composta per diversi autori di plays, ma soprattutto negli anni '90 i suoi lavori in campo teatrale si intensificarono con la composizione del Dioclesian e del King Arthur, quest'ultimo su testo di Dryden, il maggior poeta e drammaturgo inglese di questa fase terminale del Seicento.
In effetti sia Purcell che Dryden avevano riversato le loro energie nella sfera pubblica dopo, che con la morte di Carlo II nel 1685, gli interventi mecenatistici della Corte si erano rarefatti. Prima Giacomo I, in seguito Guglielmo d'Orange e la moglie Maria Stuart avevano diradato l'attività musicale della Cappella e anche nel campo profano l'interesse dei due nuovi sovrani era molto scarso.
Purcell si era potuto dedicare alla pubblicazione dell'antologia Harmonia Sacra voluta da Playford e alla scrittura cembalistica. In quegli stessi anni, nei quali guarda con sempre più interesse alla musica italiana, evidente nel coronation anthem My Heart is Inditing e nel verse anthem Behold, I Bring You Glad Tiding che nella prima sezione mostra una sorta di fanfara memore della tipologia della sonata italiana, nel 1687-88 creerà quello che possiamo considerare il suo capolavoro operistico, di una rara coesione ed intensità drammatica, il Dido and Aeneas, che pur risentendo del precedente del Venus and Adonis di Blow e della musica di Locke, guarda alla produzione italiana, come attesta il celeberrimo lamento finale. Questo lavoro pur nella suggestione francese ed italiana è da considerarsi però totalmente inglese, in una sintesi che Purcell aveva a lungo ricercata e che nei suoi ultimi lavori operistici porterà ancora più a compiutezza, anche se forse non ne raggiungerà i magnifici esiti. Tutte le sue composizioni per la scena operistica degli anni '90, fino alla morte prematura del '95, nascono nel segno di quella straordinaria fusione che ne rende indimenticabile l'ascolto. Se Dido and Aeneas rappresenta la possibile perfezione, The Fairy Queen, con la sua scrittura sapiente e raffinata, la cui ricercatezza e complessità musicale ne esaltano la forma brillante e fascinosissima, indica l'approdo del compositore ad un lavoro di squisita limatura delle possibilità insite nella sua arte.
La semi-opera, di librettista anonimo, ma forse dovuta a Thomas Betterton, in quegli anni attivo presso la United Company al Queen's Theater, è composta per la parte musicale di un prologo strumentale con funzione di Introduzione e di Interludio, la First e la Second Music, e di cinque divertissements o masques. Ognuno di questi si configura come entità sostanzialmente autonoma e conchiusa, che non incide sulla narrazione drammaturgica, seppur perfettamente integrandosi con questa. Essi si pongono nei confronti della vicenda come parentesi narrative, amplificazioni o digressioni senza che venga meno la coesione drammatica che anzi viene esaltata dai contenuti dei vari masques.
Per la parte recitata il testo segue le vicende narrate nel A midsummer night's dream shakespeariano, con una differenza, l'eliminazione del matrimonio di Theseus con Hyppolita, che manca completamente come personaggio, così che le nozze celebrate sono quelle delle due coppie di amanti. Ci si è chiesti la possibile ragione della mancanza di Hyppolita ed una ipotesi è stata quella di non voler oscurare con la sua ingombrante presenza, sempre di regina delle Amazzoni si trattava, il personaggio di Titania. Risulta molto più marcato il coinvolgimento del personaggio di Robin Goodfellow che altri non è che Puck, il folletto di Shakespeare.
Ogni masque è incentrato su di un tema specifico che simbolicamente rivela elementi essenziali presenti nel testo dei vari atti, cinque, della parte recitata: l'amore, il sovrannaturale, il farsesco-comico, il mondo onirico. La musica ne sottolinea con sottili allusioni ed artifici retorici i contenuti e crea quella coesione necessaria all'unità drammaturgica della semi-opera.
In quest'opera è incredibile la varietà della scrittura musicale, la ricchezza dei generi e degli stili che coprono tutto l'arco dei possibili affetti, dal patetico al comico, dal tragico al sublime, colpiscono le enormi capacità compositive di Purcell in grado di assimilare con assoluta originalità gli influssi francesi ed italiani, dandogli però un'impronta totalmente britannica.
Gran parte del fascino di questa opera è proprio in questa continua metamorfosi musicale che passa da un lamento straziante, al dialogo buffonesco fra due rustici amanti, dai songs più ammalianti, ai motivi onomatopeici di imitazione del canto degli uccelli, al canto danzante e arioso delle fate, dalle sinfonie con ritmi puntati di ispirazione lullista a quelle con motivi di fanfara di gusto sonatistico italiano. Insomma il virtuosismo di cui dà prova Purcell in questa semi-opera è di pari grado a quello ostentato da Shakespeare nella creazione della sua fantastica commedia. La capacità del compositore di seguire i vari piani narrativi è stupefacente e motivo di suggestiva bellezza.
Il primo masque è basato essenzialmente sull'ampia scena del poeta ubriaco tormentato dalle fate che lo hanno bendato. C'è una grande differenza fra il canto del poeta, caricato di comicità, la cui balbuzie è data con un fraseggio ripetitivo, incoerente e spezzato, in cui si coglie tutta la pesantezza terrena del personaggio, mentre il canto delle fate è aereo e mobile, di una lievità fiorita.
Il secondo masque alla fine del secondo atto dopo la querelle fra Oberon e Titania, vede quest'ultima chiedere alle fate del suo corteggio di prepararla al sonno. E' una musica fatata quella che compone Purcell per questo masque. Nel quale ad un richiamo del canto solistico accorrono gli uccelli del bosco per contribuire al clima idilliaco, e motivi di echo si rincorrono fra le voci e gli strumenti, per giungere ai songs della Notte, del Mistero, del Segreto e del Sonno. Quello della Notte "See, even Night herself is here" è assolutamente magico, di una sospensione onirica che i violini in sordina accentuano, con la voce che crea volute suadenti e ipnotiche. L'atmosfera melanconica viene sottolineata dal song per controtenore del Segreto, a cui segue un brano strumentale dal virtuosismo siderante in cui le due parti superiori degli archi sono imitate in canone dalle parti inferiori, in un rincorrersi affascinante.
Il terzo masque è totalmente basato sull'amore: Titania che a causa del filtro fatato si è innamorata di Bottom a cui Robin Goodfellow ha donato una testa d'asino, trasforma la scena in un bosco incantato dove le fate intrecciano canti e danze fino a che non vengono messe in fuga da quattro selvaggi. I vari brani del masque trattano l'amore nei suoi vari aspetti: galante, spirituale, comico, cortese. Il momento più affascinante è dato dal song per soprano "Ye gentle spirits of the air" dalla scrittura virtuosistica ricca di colorature in cui spicca l'uso del da capo di impronta italiana.
Altro momento eclatante del terzo masque il dialogo fra Coridon e Mopsia dalla rustica comicità, per contralto e basso. Nel 1693 la parte fu cantata dal controtenore John Pate specializzato in ruoli femminili, aumentando l'effetto farsesco.
Nel quarto masque si celebra la riconciliazione fra Oberon e Titania. Si apre con una sinfonia con trombe e timpani di smagliante tono regale che accompagna il sorgere del sole, e l'entrata delle stagioni seguite dal carro di Febo che intona un seducente song sulla natura benigna dei suoi raggi che danno vita e calore. Un maestoso coro "Hail! Great parent of us all" lo saluta e introduce le quattro stagioni a cui sono destinati degli assolo, splendido quello dell'autunno di malinconica mestizia "see may many colou'd fields".
Il quinto masque con il quale termina la semi-opera è legato al tema epitalamico, con il song di Giunone apparsa su di un carro trainato da pavoni, a cui segue il meraviglioso "The Plaint", un lamento dalla superba scrittura su basso ostinato discendente, in cui emerge l'intensa interazione fra voce e violino solista.
Il masque si chiude con danze e sinfonie che introducono le donne cinesi, splendida l'aria con il da capo "Thus the gloomy world", ed Imene che accetta di accendere la sua torcia per i novelli sposi. Infine una maestosa e trascinante chaconne in stile francese è il grande finale coreografico nel quale tutti i ventiquattro ballerini danzano, mentre le donne cinesi e Imene cantano nell'ultimo terzetto, accompagnate da trombe e timpani.
La straordinaria fusione fra uno dei testi più belli e magici della storia del teatro e della letteratura con una delle musiche più affascinanti mai prodotte, ha creato un precedente nella percezione che abbiamo del meraviglioso nell'opera, e non è un caso che gli inglesi lo abbiano visto come un modello assoluto. Thomas Betterton ebbe a dire:
(...) Per quanto ci riguarda non dobbiamo aggiungere altro: questa Musica, di Purcell, e questo play di Shakespere
Il Bardo e l'Orpheus Britannicus avevano lasciato un'eredità che sarebbe stato difficile raccogliere: ci provarono nell'Ottocento Karl Maria von Weber con il suo Oberon, commissionata nel 1824 dal Covent Garden, una romantische oper in inglese dall'incredibile aura magica, e Felix Meldessohn con le musiche divenute celeberrime per la messa in scena di un A midsummer night's dream voluta dal re di Prussia Federico Guglielmo IV nel 1840. Nel 1960 un altro grandissimo musicista inglese Benjamin Britten mise mano ad una versione operistica del Midsummer night's dream, nella quale il ruolo di Oberon fu creato su misura per la meravigliosa voce controtenorile di Alfred Deller, dando vita ad un nuovo gioiello musicale.
Nota sulle illustrazioni
Nell'età barocca e nel Settecento fino al sorgere delle tematiche legate al Sublime e alla pittura dell'Immaginario, non esistono rappresentazioni artistiche del meraviglioso e del feerico, per quanto come abbiamo visto fossero ampiamente presenti nelle produzioni operistiche e nella letteratura. Le convenzioni accademiche sui generi pittorici lo impedivano.
Per illustrare quindi questo testo sulla fate shakespeariane e sulla Fairy Queen di Purcell ho deciso di fare uno strappo alla mia regola filologica della contemporaneità delle fonti e di mostrare una collezione di immagini provenienti dalla pittura e dall'illustrazione inglese dalla fine del Settecento al primo Novecento. Se c'è infatti un settore dell'arte figurativa in cui gli artisti inglesi sono stati ineguagliabili è stata proprio la rappresentazione del mondo delle fairies, a loro particolarmente congeniale, soprattutto nell'età romantica e nel gusto estetizzante delle Arts and Crafts di fine Ottocento.
Alla fine del Settecento i pittori che si avvicinano all'universo feerico sono quelli che sono affascinati dalle visioni sovrannaturali del Sublime. Henry Fuseli (1741-1825), lo svizzero trapiantato e naturalizzato in Inghilterra, fu colui che diede vita alle prime straordinarie raffigurazioni relative al mondo shakespeariano con la serie di dipinti creata per la Shakespeare Gallery del collezionista Alderman Boydell. A questa appartengono le splendide tele dedicate al Midsummer night's dream con Titania, Oberon e Bottom e il seguito di fate, dagli aspetti più seducenti o raccapriccianti. Un mondo incantato ma anche fortemente ambiguo ed inquietante, con l'elemento onirico che affiora dall'inconscio. Molto vicino a Fussli nel rappresentare questa emersione dell'inconscio con i fantasmi di una mente visionaria il pittore inglese William Blake (1757-1827), che più di ogni altro artista è riuscito a rendere il mondo dei sogni e della fantasia in una poesia pervasa di orrore come di meraviglia. Al paesaggista William Turner dobbiamo una incredibile visione del regno di Féerie, dall'atmosfera caliginosa e perturbante, in cui le forme si dissolvono in un indefinita esplosione di luce e colore.
L'insorgere della sensibilità romantica nell'Ottocento farà nascere un enorme interesse nei confronti della fiaba e del suo universo magico di cui le fate sono le maggiori abitatrici. Ed ecco apparire in Inghilterra una pletora di straordinari interpreti del feerico: fra questi i più interessanti sono il raffinatissimo Robert Huskisson (1819-1861), Richard Dadd (1819-1886), la cui mente malata riesce a comunicare un universo magico di perversa complessità, Joseph Noel Paton (1821-1901), il primo membro della Pre-Raphaelite Brotherhood a dipingere un soggetto tratto da Shakespeare, amatissimo dalla regina Vittoria che volle donare al marito il quadro con la querelle di Oberon e Titania, Richard (1824-1883) e Charles Doyle (1832-1993), creatori entrambi di un mondo dove fate e natura si uniscono in un idillio dalla poesia rarefatta, Charles che lasciò in eredità al figlio Arthur Conan Doyle l'amore per l'occulto e il feerico. Infine, il pittore delle fate, John Anster Fitzgerald (1832-1906), il cui mondo incantato ha un fascino eguagliato soltanto a fine secolo da Arthur Rackam. Tutti questi artisti dedicarono molte opere ai protagonisti feerici del Midsummer night's dream, testimoniando l'attualità straordinaria del lavoro shakespeariano.
I Preraffaelliti, il maggiore movimento artistico inglese della metà dell'Ottocento, ci hanno donato alcune bellissime opere di soggetto fantastico, una delle più intriganti è senz'altro un dipinto di John Everett Millais (1829-1896) "Ferdinand lured by Ariel" dove la fusione di fantasia e realtà si concretizza nella capillare e dettagliatissima descrizione di un paesaggio naturale nel quale l'evento magico, con il folletto Ariel, fluttuante nell'aria attorniato da goblin, si incastona, creando un effetto di straniamento assai seducente. Edward Burne-Jones (1833-1898) con la serie "Briar Rose" darà vita ad alcuni meravigliosi dipinti dedicati alla rappresentazione della Bella addormentata nel bosco nei quali la sospensione fatata si concretizza nella immaginazione di un mondo onirico di ammaliante perfezione e bellezza, nel quale il senso di attesa dato dal sonno è percepibile come uno stato di straniamento dalla realtà, vicino all'incombente sensibilità simbolista. Fra mito e romance invece l'arte di J.W. Waterhouse, il cui elegantissimo estetismo conferisce una prima morbosa parvenza di fatalità alle sue eroine magiche.
Se per tutto il periodo romantico e vittoriano le fate furono soggetti anche per balletti e pantomime riportate spesso in suggestivi dipinti, ricordo la Sylphide che rese celebre la ballerina Maria Taglioni, ritratta spesso nelle vesti fluttuanti di una fata, a cui possono far riferimento le fate danzanti di E.T. Parris, fu soprattutto nei decenni terminali dell'Ottocento, nel pieno dello stile Arts and Crafts di un William Morris, che fiorì il più incredibile genio dell'illustrazione fantastica, quell'Arthur Rackham (1867-1939) al quale dobbiamo le illustrazioni dei Tales of Shakespeare, e soprattutto di Peter Pan in KensingtonGarden di James M. Barrie e di Alice nel paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, due capolavori della letteratura fantastica di tutti i tempi. Rackham, il cui debito nei confronti del disegnatore Aubrey Beardley, autore delle illustrazioni per la Salomè di Oscar Wilde e delle stampe giapponesi di Hokusai, è palesato dal suo grafismo raffinato ed elegante dalle linee flessuose e biomorfe, elaborerà una tecnica dallo stile inconfondibile che lascerà un segno indelebile per tutta l'illustrazione e l'iconografia del feerico e del fantastico nel Novecento, aprendo la strada agli attuali creatori delle saghe fantasy come quella tratta da Il Signore degli Anelli, la trilogia dedicata al Mondo di Mezzo, ancora una visione fantastica dell'amata Albione, dello storico della letteratura antica inglese nonchè scrittore J.R.R. Tolkien.
Bibliografia
AA.VV. - Purcell The Fairy Queen - L'incantata opera teatrale di un grande maestro del Barocco inglese - allegato al numero 2 Anno XII Maggio 2003 della rivista Amadeus - De Agostini-Rizzoli Periodici
Briggs Katharine - Fiabe popolari inglesi - Torino 1994
Norman Katie L - Purcell's The Fairy Queen: adaptation as response to critical anxiety - University of Georgia 2006
Yates Frances A. - Cabbala ed occultismo nell'età elisabettiana - Torino 1982
Wood Christopher - Fairies in Victorian Art - The Antique Collector's Club Woodbridge Suffolk 2008
Wood Christopher - The Preraffaelithes - London 1981
Discografia
Henry Purcell - The Fairy Queen English Baroque Soloists - Monteverdi Choir - dir. John Eliot Gardiner Archiv
Henry Purcell - The Fairy Queen Les Arts Florissants - dir. William Christie Harmonia Mundi
Henry Purcell - The Fairy Queen New English Voices - Accademia Bizantina - dir. Ottavio Dantone Arts (prima inciso per la rivista Amadeus n°2 anno XII Maggio 2003 - Paragon-Milano)
Tutte queste incisioni sono notevolissime e difficile dire quale sia la più bella: sicuramente quella di Gardiner è più classica nel senso di un idiomatismo molto marcato. Ma mi permetto di suggerire l'ascolto della versione dell'Accademia Bizantina e del Coro dell'English Voices diretti da Ottavio Dantone. E', a mio avviso, un'incisione superba con la meravigliosa voce della Carolyn Sampson e più brillante e dinamica nei tempi.
Suggerisco altresì uno splendido recital, incentrato sulla musica per opera e songs di Purcell, eseguito a Beaune tre anni fa dall'Accademia Bizantina con Andreas Scholl. La registrazione è disponibile su youtube ed anche accessibile all'inizio di questa pagina cliccando su "Attiva la colonna sonora".